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Gruppo Folk Città di Sassari

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myspaceeditor.itFino a poco tempo fa parlare di Sassari e folklore sardo sembrava quasi una forzatura, considerando la città priva di costume, lingua e usanze “conformi” che ne caratterizzassero appunto l’appartenenza a pieno titolo alla comunità isolana, ignorando tra l’altro il fatto che il suo tessuto sociale è composto a stragrande maggioranza dai cosiddetti “accudiddi” di prima o seconda generazione di provenienza prevalentemente logudorese e quindi sarda in senso stretto. Rifiutando così il luogo comune che riduce la cultura sassarese a “mirinzane in forru”, “ciogga minudda” e “vainnorammara”, senza rinnegare nulla del peculiare spirito “cionfraiolo” e “impiccababbu”, vogliamo ora riannodare il legame con le radici sarde, allentato nei secoli soprattutto linguisticamente, dalla dominazione pisano-genovese in poi. Dopo un tentativo di “S’Iscola Sarda” di “Zampa” Marras risalente a diversi lustri fa, affossato da un’ostile campagna di stampa orchestrata da Aldo Cesaraccio sulla Nuova Sardegna, nel 2001 nasce in un liceo di Sassari, per iniziativa del Prof. Giuseppe Desole, un progetto didattico con la finalità di promuovere la riscoperta e la divulgazione del costume e delle tradizioni di Sassari. Il lavoro che ha coinvolto gli studiosi Antonio Murziani, Gian Mario Demartis, Antonio Arcadu e altri, ha portato alla ricostruzione, sulla base della documentazione iconografica esistente, di diverse fogge, sia maschili che femminili, dell’antico vestiario della città, presentate ufficialmente nel Natale del 2002. Del 2003 sono le prime uscite ufficiali alla BIT di Milano, alla Cavalcata Sarda a Sassari e alla Sagra del Redentore a Nuoro. Nello stesso anno, viene costituito il Centro di Cultura Sassarese con sede nel cuore delle città proprio dietro la chiesa di S. Apollinare e come Gruppo Folk “Città di Sassari” iniziano le prime esibizioni. Istituzionalizzata perciò la presenza alle manifestazioni folkloristiche più importanti dell’isola, il gruppo si consolida e si esibisce ora abitualmente in feste, rassegne e trasmissioni televisive, in Italia e all’estero, eseguendo i balli tradizionali dell’area logudorese di riferimento, accompagnati da Silverio Vinci di Osilo, all’organetto diatonico e da Leonardo Spina di Usini alla voce. Il gruppo, ha effettuato nel 2006 una apprezzata tournèe in Friuli e si è esibito con successo a Nuoro davanti a oltre 7.000 persone, alla Rassegna del Folklore nell’ambito della Sagra del Redentore, vera “prova del fuoco” per tutti coloro che si cimentano nell’arte del ballo sardo. Ultima uscita all’estero in ordine di tempo, una tournee in Corsica nel maggio 2007, mentre in agosto ha partecipato al Festival Internazionale del Folklore di Tempio con gruppi provenienti da ogni parte del mondo. Gettato quindi il seme su un terreno piuttosto arido, grazie a iniziative come il “Matrimonio Sassarese” in costume e le esibizioni itineranti per le vie della città, pur tra qualche resistenza e ostilità residua, germoglia ora nel capoluogo turritano una nuova coscienza e spirito identitario. Abbiamo dimostrato che ballo e canto sardo non ci sono estranei come qualcuno vorrebbe farci credere, spacciando invece le “tarantellate” importate e in voga da qualche decennio a questa parte, come prodotto autenticamente sassarese. Lo stesso proliferare di nuovi gruppi, pur non sempre all’altezza, sta a testimoniare che comunque la sfida di riportare (dal punto di vista della tradizione) Sassari in Sardegna, è pienamente riuscita.I ballerini del Gruppo Folk Città di Sassari attualmente sono: Massimo Sanna (capogruppo), Mariana Scodino, Luciano Erittu, Marcella Cuccu, Franco Bortolu, Fabiola Sias , Sandro Nuvoli, Claudia Meloni, Gaspare Murdocco, Cristina Loriga, Antonio Pilo, Clara Francesconi, Michele Salis, Roberta Cadoni, Valentina Dalerci, Simone Faedda, Elisa Bulla e Teresa Fiori
COSTUME MASCHILE
Tipico dell’abbigliamento maschile di Sassari è il copricapo che consiste in una berritta ripiegata in tre cerchi concentrici digradanti. Era composta di panno di colore rosso per le classi abbienti e nero per gli zappatori. Era perciò chiamata barretta a cecciu. Talvolta sopra, veniva indossato un cappello a falde larghe sicuramente di origine spagnola; risulta infatti dai documenti esaminati che nei lasciti compare il tipico sombrero. Non si dimentichi che l’acconciatura del capo e il copricapo, sono espressione di distinzione e obbediscono ad istanze di classe, investendo direttamente il rapporto tra ceti dominanti e subalterni. La camicia, che veniva confezionata in lino o in cotone, era bianca ed elaborata con una fitta increspatura all’attaccatura del colletto e delle maniche. Queste ultime risultavano molto ampie e larghe per consentire libertà di movimento. Il colletto era rialzato, finemente impunturato, veniva chiuso da bottoni in filigrana d’oro o d’argento alla maniera spagnola di “Carbajale”. I calzoni bianchi, ugualmente di lino o cotone, avevano forma alla zuava in quanto le gambe dei calzoni si restringevano sotto le ginocchia. Sopra i calzoni veniva indossato un corto gonnellino chiamato ragas. Di norma confezionato in orbace nero, si presentava scampanato per via delle increspature della vita. La parte anteriore era congiunta con quella posteriore da una stretta striscia della stessa stoffa (sa latranga in logudorese), volgarmente chiamata anche paratroddiu. Secondo alcuni studiosi le ragas discendono da un indumento portato dai soldati romani sotto la lorica, chiamato balza, mentre secondo altri sarebbe di origine rinascimentale. Le gambe erano ricoperte da uose, normalmente di orbace nero ed avevano la funzione di proteggere dalle spine e dai rovi, ma anche dalle intemperie. Sopra la camicia veniva indossato un giubbetto di panno a due petti, di colore rosso, azzurro o blu, con le maniche o senza, a seconda dell’uso o della classe sociale. Quello con le maniche presentava uno squarto nella parte superiore delle stesse per non impacciare i movimenti. Le classi sociali più elevate lo portavano preferibilmente rosso con le maniche chiuse da una ricca bottoniera d’argento o d’oro secondo status sociale ed economico della famiglia, così come i materiali usati potevano essere tessuti pregiati di provenienza extra isolana o al contrario di poco pregio. I giubbetti senza maniche, usati dai più poveri, spesso erano confezionati con tessuti diversi per la parte anteriore e per la posteriore: panno colorato per la prima, di tela di poco pregio per la seconda. Una larga cintura di pelle, che poteva essere liscia o finemente decorata, completava l’abbigliamento Sopra questi capi poteva essere indossata una sopraveste in pelle chiamata cullettu che il Lamarmora descrive come “una specie di giustacuore senza maniche, molto stretto specialmente sulle anche e forma incrociandosi in basso, come un grembiale doppio che scende fino ai ginocchi. Fatto di cuoio conciato e liscio, richiede una cintura per tenere a posto le falde. Il cullettu è l’abito ordinario e giornaliero dei coltivatori, difende il corpo dai cambi improvvisi di temperatura e dalle intemperie; presenta una superficie impermeabile sia ai raggi ardenti del sole che all’umido del mattino e della pioggia; difende il petto e le coscie dalle spine e dai rovi dei terreni poco coltivati; si presta facilmente a tutti i movimenti, resiste alle fatiche di ogni specie ed è di lunga durata. Sebbene sia destinato ad essere solo un abito di fatica,il lusso ha trovato lo stesso il modo di farne un oggetto di valore assai notevole sia per la qualità della pelle, sia per le cuciture, sia per fermagli e bottoni preziosi che vi si attaccano.” Completava l’abbigliamento un lungo giaccone provvisto di cappuccio conico, chiamato gabbanella, che i più ricchi si facevano confezionare con un tessuto pregiato della Tuscia detto “monachino”. Tale capo veniva allacciato con preziose gancere d’argento e si indossava come una giacca o più spesso si appoggiava semplicemente sulle spalle.
COSTUME FEMMINILE
Più vario di quello maschile, giova seguire per la descrizione le illustrazioni di Cominotti che sono state prese a modello per le ricostruzioni dei costumi. In questa intitolata imurza sassarese, si può notare il costume della venditrice di fichi d’india, composto dal fazzoletto, dalla camicia bianca, dal corsetto e da un’ampia gonna gialla con balza bianca. Si tratta di un abbigliamento povero con tessuti di poco pregio. Manca il grembiule che normalmente era sempre presente anche nelle classi umili. Nella tavola donne al rosello, vengono riportati particolari importanti come l’uso del fazzoletto a soggolo e del giubbetto usato solitamente dalle classi abbienti. Da notare la varietà dei colori dei tessuti, non riportabili a canoni fissi. In tutte le tavole il copricapo (mucaroru di cabu) è sempre presente, in quanto per le donne il capo scoperto era considerato una trasgressione non ammessa neanche in ambito familiare. Alziator li classifica in Sardegna, in cinque tipi: - a manto ricadente - a manto annodato e cercine, a soggolo, preparato con appretto - a cuffia - a copricapo maschile da cerimonia - composto dai due tipi precedenti A Sassari è documentato l’uso dei primi due sopra una cuffia di colore rosso o nero chiamata tuchè. A questi va aggiunto quello rappresentato nel costume dell’ortolana, con fazzoletto di forma triangolare con angoli arrotondati, tenuto in testa da una benda dello stesso tessuto che avvolge il viso. I materiali usati variano dal lino, al cotone, ai veli ricamati, secondo stato sociale e disponibilità finanziarie. Importante il colore, rigorosamente bianco per le classi abbienti, variopinto per quelle più umili. La camicia, lunga, aveva un uso molteplice: veniva usata anche come sottoveste e camicia da notte. Era strutturata con un’ampia scollatura che lasciava intravedere generosamente il seno, tanto che fu necessario far indossare alle donne un altro fazzoletto poggiato sulle spalle che scendeva sul davanti giusto per coprire gli attributi femminili e chiamato perciò parapettu. Il Costa fa risalire ad un parroco sassarese l’introduzione di quest’indumento che aveva lo scopo di far nascere nelle donne sarde la coscienza di un pudore che esse non avevano, nel senso che sulla base di un’antiquata morale religiosa, si definiva impudico ciò che per loro assolutamente non era. La camicia fu sostanzialmente anche l’unico capo di biancheria intima, essendo le mutande entrate in uso in tempi più recenti. Sulla camicia si indossava un busto chiamato cossu che aveva il compito di contenere e sostenere il seno. A Sassari veniva usato rigido che avvolgeva tutta la parte superiore della donna, modellandola a “V” col risultato di marcare bene il “vitino da vespa” ed evidenziare molto bene il seno. Lu cossu era composto di due parti unite insieme con nastri multicolori, anche se il rosso era il più usato. Forse più degli altri capi di vestiario, rimarcava le distinzioni sociali per la finezza della fattura e i materiali utilizzati che andavano dalla semplice tela di lino al damasco e ai broccati di seta intessuti d’oro e d’argento. La gonna (falsthetta) era sempre molto lunga e ampia, si presentava fittamente pieghettata nella parte posteriore, mentre era liscia in quella anteriore. La parte inferiore era rifinita con una striscia di tessuto di diverso colore. Le gonne delle varie venditrici (di pane, di pesce), erano sempre lunghe e ampie, ma non avevano la fitta pieghettatura posteriore, presentavano invece pieghe sciolte sia nella parte anteriore che posteriore. Il colore usato per le dame era il rosso mentre per le altre variava anche in fantasie rigate o quadrettate. Le signore sopra lu cossu, indossavano un giubbetto attillato, della stessa stoffa e dello stesso colore della gonna: lu corittu. Consisteva in una giacchetta aperta sul davanti, le cui falde incrociandosi lasciavano intravedere lu cossu specie se di tipo pregiato. Aveva inoltre lunghe maniche squartate nella parte superiore e ricca bottoniera d’oro o d’argento a chiudere le maniche. Si utilizzava per la confezione pregiato panno d’importazione e il velluto. Completavano l’abbigliamento, il grembiule (lu panneddu) di stoffa trapezoidale lungo tre quarti della gonna, di seta (anche stampata), di lino, di cotone o di velo ricamato, bianco per le signore, spesso abbinato al colore del fazzoletto per le altre. Il grembiale dell’ortolana è originale in quanto più corto degli altri e riproduce nei colori e nei materiali il complesso costume. Le calzature erano un lusso che potevano permettersi solo le “signore”, e consistevano di calze bianche e scarpe ornate da fibbie d’argento. Le popolane andavano spesso scalze per riservare le calzature per i giorni di festa o particolari ricorrenze. A queste descrizioni, poichè si parla di costume popolare e non di divise, si devono aggiungere tutte le varianti che andavano a personalizzare l’abbigliamento costituendo talvolta tipologie intermedie tra quelle descritte e attualmente riprodotte dal gruppo.

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