quando novecento non scende dalla nave è per paura dell'infinito, ognuno ha bisogno dei propri confini, per dominarli riempiendoli, perchè ogni cosa all'interno racconti parte di se. e piano piano i miei confini si sono ritratti fin solo dentro questa stanza, pochi metri quadri, ma è questa che guardo per ritrovarmi, esaminarmi, capirmi, conoscermi, dal punto in cui il mio mondo è conosciuto in maniera consueta, questa sedia girevole, tra il banco e le tastiere, la stufa e il posacenere, il giallo ed il nero. è qui che dovrà entrare chi vorrà vedermi, è qui che dovrà sedere chi vorrà conoscermi, osservando la luce che entra dal vetro, filtrata dalla tenda leggera, dai drappi animati delle giornate ventose, che dà corpo e vita a ciò che contiene, dalle aste e i leggii che si stagliano in aria a sorreggere prodezze, umili, ferree e fedeli come scuri maggiordomi, alle strade intraprese dal colore dei cavi, che prima di inerpicarsi a succhiare e tradurre canzoni, strappano al tappeto la logica continua dei suoi nodi, per dargli l'aspetto confuso di un batik. è qui che mentre è fermo tutto testimonia l'inerzia del movimento che ha subito, l'amore per il servizio reso a tutte quelle mani mosse dall'ingegno, dalla speranza, dalla passione, fra i tasti impolverati della macchina per scrivere del maresciallo, dall'angolo dove il frigo accoglie la sete, fra le pelli, le corde, i tasti di tutti quei dediti amanti che segnano il perimetro del suono, dell'odore di olio e di cera, il contorno fisico di quel che racchiudono e liberano in orgasmo per amore di quelle mani. è qui, fra lo spettacolo luminoso di vecchie bottiglie, e il cogito geometrico della sedia di legno, fra il calore accecante delle lampade, e il freddo mosaico del pavimento, qui, fra il bronzo ed il legno, il velluto e la ceramica, il giallo ed il nero, che vivo, che muoio, respiro quel che sono, riempio quel che respirerò.