Era una notte piovosa. Il vento ululava forte attraverso l’inferria-ta e io stavo chino sul mio solito quaderno: una penna in mano, una candela morente e un bacile d’acqua bollente che mi scaldava i piedi. Uno per uno contavo i minuti che mi separavano dall’alba, scanden-do il tempo con un singolo fruscio instancabile. La mia penna correva veloce e io quasi non le stavo dietro: creava una matassa difficile da srotolare. Rischiai più volte di perdermi. Strizzavo gli occhi per met-tere a fuoco le idee, ma la stanchezza sembrava volersi portar via l’ultimo briciolo di lucidità .
Avevo poco tempo. Troppo poco. La penna proseguiva apparen-temente viva e pregna d’anima e la mano ci si aggrappava per paura di cadere via. Sentivo il fiato del vento sul collo e diverse volte ebbi un terribile presentimento. Quasi mi voltai per guardarmi alle spalle. Strinsi i denti e mi feci male. L’acqua s’era raffreddata e le gambe cominciarono a tremare. Sentivo freddo ma fingevo di non accor-germene. Guardavo l’intricata forma dei segni incisi sul foglio senza capirne il significato.
L’alba giunse con un frammento di luce e, decisa a sollevarmi dall’incarico, spense la candela con uno sbuffo. La penna si fermò tanto rapida che la mano non se ne accorse, strappando parte della pagina in una linea profonda e sofferta. Alzai lo sguardo e osservai la stanza. I mobili erano ancora in ombra, ma vedevo chiaramente l’o-rologio fingere di battere le ore. Mi voltai e vidi il mio viso riflesso sullo specchio. Non ebbi il tempo di sorridere. Tutto finì così.
Fu quella notte che cominciai quest’avventura straordinaria. La mia mente vaga allo strano e confuso ricordo di quei momenti persi nei vicoli bui della mia testa: l’anno che stravolsi tutti i miei schemi con una poesia che mi valse una gratifica; il giorno che abbandonai quel giornale per scrivere con le mie mani; e l’istante in cui tutte le mie fatiche presero corpo e risero con me.
È vero: non era una notte piovosa. Non c’era quel vento né quella candela. Non stringevo in mano una penna e i miei piedi erano coperti da spesse calze di lana (eppur sempre freddi). Ma dentro la mia testa vorticava una tempe-sta piena di idee che ancora non si è sopita. E mi piace pensare che tutto successe così, in un mondo che non appartiene a questo mon-do. D’altronde scrivere è un po’ questo.
Vivere, invece, è tutt’altro.