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About Me

Sono un pittore che, in quanto tale, ne ha fatto di tutti i colori. Ho realizzato chi sa quante centinaia di metri quadri di pitture, pubblicato libri con Einaudi, Mondadori e altri, fatto conferenze, partecipato a dibattiti insegnato... Attualmente, non faccio piu' cose da appendere al muro (quadri), ma cortronici (corti elettronici) astratti, cioè niente che somigli alla cosiddetta "realtà esterna". LE DIAFANIE Quella di far nascere il mio mondo poetico da un uso accorto delle mani fu una cosa che se ne andò a bimbe con la realizzazione delle mie computer graphics. Il salto non era cosa da poco, anche se non se ne andarono a bimbe i millenni di pittura che avevo alle spalle. Del resto, liberarsene era stupido, oltre che impossibile. Comunque, era urgente abbandonare i supporti cartacei, per la loro insopportabile dipendenza dai chiodi al muro. Dovevo servirmi di supporti più naturali, se si può dire così dei CD, delle videocassette e dei supporti la cui natura apparteneva a un mondo totalmente artificiale. E allora, sarebbero cominciati i casini perché, se non era facile camparci la famiglia con oggetti da appendere ai chiodi, sperare di farlo con videocassette, CD o diapositive significava credere che babbo Natale esistesse davvero. Con le diafanie, mi sembrò di avere trovato per il mio lavoro l’uscita più naturale, comunque la meno incoerente con le peculiarità linguistiche della macchina. Erano diapositive, infatti, su cui depositavo le immagini che avevo elaborato col calcolatore. Le ottenevo col Paint De Luxe, fotografandole direttamente dal monitor, una procedura che faceva inorridire gli informatici dello zoccolo duro, i quali preferivano la Polaroid palette, in nome di una qualità i cui parametri erano decisi dal fabbricante. Si trattava di un attrezzo supplementare che costava più o meno come un altro calcolatore, capace di trasferire tutta l’immagine nella pellicola, pixel per pixel, senza lasciarne uno fuori. Tutto sommato, avevano ragione quegli informatici, perché quello di fotografare direttamente il monitor non mi si presentò come un problema da nulla. Infatti, la temperatura di colore del monitor non era quella su cui erano tarate le pellicole. Dunque, dovetti individuare per prove ed errori i filtri adatti di correzione colore. Inoltre, in seguito, e sempre per prove ed errori, dovetti individuare in tutta Cagliari un laboratorio di sviluppo disposto a non trattare i miei rullini come quelli dei turisti, ma a trattarli per primi e con bagni vergini accuratamente controllati nella temperatura. Pagavo un po’ di più e non me li consegnavano dopo un’ora, ma il risultato era eccellente. Decisi di chiamarle diafanie perché diapositive e basta mi sembrava riduttivo e fuorviante: la diapositiva mi faceva venire in mente le gite in campagna e le feste di compleanno. Come capita sempre quando si tratta di segni e in particolare di segni prodotti dalla macchina fotografica, la diapositiva intesa come luogo dell’immagine era qualcosa che stava al posto di qualcos’altro e rimandava alla cosa di cui stava al posto: stava al posto dei paesaggi, e rimandava ai paesaggi, stava al posto delle opere d’arte, e rimandava alle opere d’arte, stava al posto delle partite di calcio, degli incidenti automobilistici, dei riti propiziatori, e rimandava, rimandava sempre; e ogni volta che rimandava, la prima cosa che veniva in mente era che l’oggetto del riamando fosse più interessante, comunque diverso, mentre la sua riproduzione in diapositiva poteva essere solo “somigliante”, anche se a volte appariva migliore dello stesso oggetto. Le diafanie invece non rimandavano a qualcos’altro, ma solo a se stesse, come del resto capitava da sempre a tutte le opere d’arte, compresi i ritratti di Madonne e le nature morte di triglie al cartoccio, che non rimandavano ai ritratti di Madonne e alle triglie al cartoccio ma ad altre immagini di Madonne e ad altre immagini di triglie al cartoccio, mentre il titolo serviva solo per fare felici parroci, avvocati e critici d’arte i quali, senza un titolo, dai rispettivi pulpiti, non avrebbero saputo cosa dire, intorno ai ritratti di Madonne e alle nature morte di triglie al cartoccio. Le diafanie non rimandavano e non nascevano come riproduzioni di oggetti ma erano oggetti in sé. Erano oggetti che, in quanto tali, potevano essere tradotti a loro volta, per esempio in videotape. E la traduzione sarebbe stata qualcosa che stava al posto delle diafanie, dunque un’altra cosa, e non solo per la diversa qualità delle immagini. Come le diapositive comuni, del resto: non essendo la cosa di cui stavano al posto, erano necessariamente diverse dalla cosa stessa, ancorché “somiglianti” e, a volte, apparivano migliori. Inizialmente, pensai di chiamarle epifadìe, una cosa a metà tra epifania e diapositiva, cioè apparizione per mezzo di diapositive. Solo che, con quella “d” nella desinenza finale, più che l’idea dell’epifania, cioè dell’apparizione, avrebbe richiamato quella del raffreddore. Allora ricollocai le desinenze in altri spazi e così venne fuori diafanie: il raffreddore se ne andò, ma in compenso rimase l’aura della befana. Meglio così. Naturalmente, appena cominciai a lavorare alle diafanie presi a parlarne con gli amici, spiegando come funzionavano: due proiettori speciali collegati in batteria, capaci di mandare un’immagine sopra l’altra e in successione, con una dissolvenza in entrata che si incrociava con una in uscita; una centralina elettronica in grado di controllare gli impulsi per gestire tempi di dissolvenza e trasporto delle diapositive. Insomma che un po’ era come quando si tornava dalle vacanze e si chiamavano gli amici per proiettare sul muro le immagini dei luoghi visitati, ma col bellissimo effetto delle dissolvenze incrociate. Quando venivano a trovarmi nello studio per vederle, nessuno s’aspettava qualcosa di tanto coinvolgente. Tutti vivevano un momento iniziale di imbarazzo (queste cose me le dicevano dopo la visione), perché non era chiaro ciò che succedeva, così che molti sospettavano che fosse come quando tutti insieme andavamo a vedere i film sperimentali di Godard e ce ne uscivamo dal cinema senza averci capito un cazzo, mentre altri si domandavano se dovevano correre dietro a nuove e misteriose poetiche pittoriche, nella speranza di rintracciarle durante la proiezione, oppure se c’era un racconto da seguire, cosa questa che alcuni riuscivano a fare davvero, mentre altri preferivano inseguire zigzagando una linea filologica che legasse coerentemente le immagini delle diafanie al criterio transazionale, sforzandosi disperatamente di controllare gli eventi secondo procedure e sistemi di attese che facessero capo a quel tipo di indagine scientifica che andavo proponendo da anni, fino a fare morire tutti di noia. Alla fine, per fortuna mia che non mettevo dentro le diafanie niente di simile e finalmente mi sentivo liberato da carichi così gravosi e inutili, ma anche per fortuna degli amici che, capito come andavano le cose, finalmente potevano mettere a riposo la mente anche davanti a un mio lavoro, abbandonandosi come in un sogno e lasciando che fossero le immagini a fare tutto senza stremarsi più dalla fatica. E poi, succedeva un cosa molto insolita, che rilassava ulteriormente i miei ospiti: alla fine della proiezione, non aprivo il dibattito. Se volevano, potevano anche parlare, mica era vietato. E il più delle volte infatti parlavano. Ma a me bastava che si mostrassero soddisfatti. Anche i bambini si lasciavano prendere, per quanto non fosse presente nessuna fabula dichiarata da seguire. Nessuno, prima di vederle, capiva le mie spiegazioni preliminari, soprattutto se le caricavo di aggettivi e di avverbi e di traslati non sempre rivolti agli aspetti tecnici. Solo quando partiva la proiezione e lasciavano decidere agli occhi, molti esclamavano: - Ah, cazzo! Che indicava soddisfazione, ed era comunque un’esclamazione liberatoria. Del resto, anche a me capitò la stessa cosa, quando le proiettai per la prima volta: - Ah, cazzo! Nel novembre del 1989, avevo messo a punto la prima intitolata "La prima volta, con un tantino di precauzione" (18'32”) senza sapere cosa sarebbe successo, con la mente piena di aggettivi e avverbi e traslati, e senza neppure conoscere il funzionamento dei proiettori. Ignoravo persino se l’immagine ingrandita avrebbe mostrato i pixel, rischiando di buttare via 2 milioni, quanto mi costarono proiettori e centralina (meno male che il registratore AV l’avevo già). - Ah, cazzo! Il fatto è che in qualche modo dovevo trovare alle immagini un’uscita dal calcolatore, che non fosse quella delle stampe su carta, abbastanza impropria, come ho già detto. Del resto, neppure l’uscita dal monitor andava bene, perché il monitor somigliava allo schermo del televisore e guardare le diafanie al televisore era come guardare la Gioconda riprodotta nella carta delle caramelle. A parte che, quando si guardava la televisione, si volgeva continuamente lo sguardo altrove per mangiare e bere, per chiacchierare, si andava a fare pipì, si correva a controllare se la pasta era cotta, e intanto il televisore continuava ad andare per conto suo, fottendosene se andavi a fare pipì, se correvi a controllare la pasta, e insomma, non avrei sopportato che andasse per conto suo anche mentre mandava le mie immagini. A farla breve, la televisione non era fatta per essere guardata con attenzione neppure quando mandava un film a luci rosse, mentre con le diafanie era vietato distrarsi, e bisognava vederle al buio, come al cinema, in silenzio, senza dimenticare che il telefono doveva essere staccato, vietato fare commenti durante la proiezione, non lo sopportavo neppure se i commenti erano positivi, che cazzo avrai da commentare, i pensieri tieniteli fino alla fine, se la meraviglia non ti ha lasciato per strada senza fiato. I risultati furono migliori di come li pensavo prima di comprare le macchine: le immagini, a causa del forte ingrandimento, assumevano naturalmente una corposità maggiore che nel monitor, ed era una festa per gli occhi il loro sgretolarsi e ricomporsi per effetto delle sovrapposizioni e delle dissolvenze. Sognavo uno schermo gigantesco che me le facesse cadere addosso, avvolgendomene totalmente. Meglio, se avessi potuto mandarle con proiettori potentissimi dal monte Ortobene, sul versante candido dei monti di Oliena, con gli altoparlanti della NASA dislocati nelle valli, e i pastori tutt’intorno col mento appoggiato alla mazza, e gli abitanti di Nuoro, affacciati alle finestre di casa, tutti che esclamavano: - Lampu! Smettendo di produrre roba da appendere ai muri per lavorare alle diafanie, capii subito che non mi sarei mai arricchito. Del resto, neppure con i quadri ci ero riuscito. Eppure, erano bellissimi. E zeppi di spunti filosofici e/o scientifici, senza contare le implicazioni poetiche. Sì, bellissimi. Invano rimasi in attesa di una società civile, dove anche la “gente comune” avesse il diritto di chiedere agli architetti, oltre al cesso e allo sgabuzzino per le scope, anche la stanza delle meraviglie, il luogo dove chiudersi per permettere agli occhi di fare festa: i miei quadri alle pareti, perché no, dal momento che erano bellissimi, zeppi di spunti filosofici e/o scientifici, senza contare le implicazioni poetiche, ma anche nicchie dove sistemare proiettori e schermi televisivi e macchine olografiche che mandassero in continuazione e/o a piacimento, con controllo manuale e/o automatico, immagini di grandi capolavori sulle pareti e/o contro il soffitto. Musica quadrifonica, naturalmente, più proiettori, schermi concavi con i bordi sfumati di nero per fare nascere l’immagine dal buio, con effetti di tridimensionalità molto coinvolgente. In stanze così, le mie diafanie sarebbero andate proprio bene e, magari, sarei riuscito persino a cavarne dei soldi, chi avrebbe potuto dire di no. Naturalmente, per quanto riguardava gli aspetti più strettamente linguistici delle diafanie, sapevo bene, per dirne una, che le dissolvenze incrociate non erano una novità, né che era una novità la multivisione, il sistema di proiezione di diapositive su un unico piano per mezzo di due o più proiettori che mandavano in dissolvenza un’immagine mentre ne entrava in assolvenza un’altra. Inoltre, sapevo bene che il cinema usava le dissolvenze incrociate, anche se lo faceva prevalentemente per connettere una sequenza con un’altra. Solo che nel cinema poteva capitare che l’ultima immagine della prima sequenza, fondendosi con la seguente, producesse una terza immagine più bella delle due che la formavano, e allora si aveva un momento di intenso piacere percettivo. Ma le esigenze del cinema erano principalmente quelle del racconto e le dissolvenze non sempre erano o potevano essere calcolate in ragione di un loro intrinseco valore estetico. La loro funzione era solo di raccordo tra un evento e l’altro. Nelle diafanie, invece, era proprio il valore estetico a emergere. In più (e questo dimostrava che il rapporto con le immagini era principalmente linguistico, cioè caratterizzato dal piacere di vedere come erano fatte, più che da cosa rappresentavano), non c’era il disturbo di una storia da seguire e, anzi, la storia ciascuno poteva inventarsela come voleva, se proprio ci teneva, senza neppure sentirsi costretto nelle maglie di una qualche logica narrativa che non fosse quella che egli stesso si sceglieva di volta in volta, a seconda della carica evocativa che attribuiva alle immagini. Il filo che riguardava lo svolgimento di ogni storia possibile, comune a tutte le diafanie, riguardava il come esse venivano costruite. Il più delle volte, creavo la prima immagine, partendo da una forma molto semplice, oppure, più raramente, da una configurazione più complessa. La seconda immagine derivava dalla prima, per addizione o sottrazione di uno o più elementi discretamente pregnanti, in grado di produrre differenze percepibili, ma non tanto da mascherare il grado di parentela con la prima, se si può dire così. La terza immagine nasceva dalla seconda, la quarta dalla terza, la quinta dalla quarta, e così via, sempre addizionando o sottraendo all’immagine precedente uno o più elementi pregnanti che, nel rispetto che sentivo verso semiologia e senza negare il bisogno che avevo di darmi arie, mi piaceva chiamare sintagmi percettivi. Procedendo così fino all’ultima immagine, solitamente la settantaduesima, il grado di parentela con la prima se n’era andato del tutto: più o meno, come tra le amebe e gli uomini illustri. Mentre permaneva nella memoria dello spettatore la storia della diafania, nient’altro che la filogenesi di una forma, percorsa nello scorrere di 72 immagini. Ovviamente, lo sviluppo filogenetico racchiuso in ogni diafania non era il solo possibile. Infatti, ogni immagine iniziale ne racchiudeva in sé innumerevoli e tutti diversi. Come in natura, ciascuno di essi era determinato dal caso e dalla necessità, come affermava autorevolmente Monod, dove al caso e alla necessità, io non ci mettevo nulla ad aggiungere l’arbitrio, in quanto gli artisti si sentono Dio, poco legati alle leggi della Fisica e a tutte le leggi, fanno quel cazzo che vogliono e, se ne hanno voglia, ti dipingono senza battere ciglio un ferro da stiro che galleggia in un mare tempestoso, cosa vuoi che gliene importi della gravità, e di Archimede, e della spinta dal basso verso l’alto, e del volume di acqua spostato da un corpo immerso… I segni che utilizzavo non rivestivano mai una funzione referenziale, non rimandavano cioè a cose esistenti. Tuttavia, per il fatto stesso che i segni venivano percepiti, significava che lo spettatore, proiettando sulle immagini le sue proprie assunzioni inconsce, vedeva qualcosa che lo rimandava a qualcos’altro di già visto in precedenza. Insomma, non era difficile, appunto, ricavarne delle storie, come se ad agire sul piano di proiezione fossero comunque immagini di cose. Dipendeva dal fatto che per vederle, anche se non rimandavano intenzionalmente a cose, le nostre assunzioni inconsce, proiettandosi su quelle immagini, le facevano somigliare a immagini di cose che conoscevamo già. Come quando si guardano le nuvole che a volte sembrano assumere forme di cose esistenti, anche se le nuvole non hanno nessuna intenzione di rappresentarle. A me piaceva utilizzare segni che non contenessero se non se stessi, che non rimandassero intenzionalmente e che però, in quanto imballaggi a tutti gli effetti e sia pure virtuali, nessuno riusciva a immaginare vuoti. Mi piaceva utilizzare quei segni perché sapevo che ben poco sarebbe cambiato se avessi usato figure: tanto, ogni spettatore avrebbe finito lo stesso col proiettare, su segni di figure e/o su segni che non volevano rimandare ad altro, le sue proprie assunzioni, riempiendoli di significati che sarebbero stati sempre tanto inevitabili quanto legittimi e personali. Mi piaceva essere uno stimolatore fisico di storie diverse che si celavano sotto un unico insieme di segni che ero stato io a ordinare. Mi piaceva pensare che quei segni generassero storie di cui non avrei mai potuto conoscere gli intrecci possibili, perché non necessariamente avrebbero generato gli stessi intrecci delle mie storie. Mi piaceva che fossero gli altri e non io a derivarle dalle mie immagini, anche se non avrebbero saputo raccontarmele, se non riordinando e ricostruendo i miei segni con altri segni, magari verbali, che a loro volta avrebbero composto altre storie capaci di autogenerare all’infinito i segni di altre storie. Forse, in quegli anni nessuno progettava ancora le proprie opere d’arte legando immagini aniconiche al procedimento della multivisione, anche se Maltese sosteneva che un suo amico pittore, inglese, aveva prodotto qualcosa di analogo alcuni anni prima. Erano discorsi che però mi faceva al telefono, senza aver ancora visto le diafanie e forse pensava a un mio bisogno di rivendicare il primato sull’uso dei proiettori, e sarebbe stato come rivendicare il primato sull’uso del cavalletto e della tavolozza. Ma poteva darsi che, volgendo in quel momento la sua attenzione altrove, essendo ormai andato via da Cagliari, e non avendo potuto capire di cosa si trattava realmente per via della comunicazione telefonica, la sua fosse solo riluttanza a occuparsi di un altro modo di produzione artistica. Forse, era solo stanchezza, chi sa. E comunque, per la prima volta mi sentii abbandonato da lui. Come ho già detto, gli altri artisti, quelli che incontravo qua e là nell’intento di sculacciare in compagnia l’universo, erano davvero riluttanti a servirsi di mezzi che non fossero i pennelli. I meno distratti erano disposti ad accettare quei materiali umili che l’avanguardia storica aveva sdoganato da tempo, ormai accettati e già sperimentati persino da molti maestri elementari di mia conoscenza, i quali li utilizzavano per sviluppare la creatività dei loro scolari: carata strappata, stracci, sabbia e, insomma, immondizie di ogni tipo, compresa la plastilina, che allora andava molto, forse perché repellente al tatto: - Il bello si trova dappertutto - questo dicevano alle creature, portando come prova misteriosi fiori nati nell’immondezzaio, che forse esistevano davvero, ma che nessuno aveva visto perché andare per fiori negli immondezzai era una pratica insolita, come quella di andare per funghi nelle spiagge. La riluttanza degli artisti all’uso di nuovi mezzi era motivata da questioni che non stavano né in cielo né in terra. Parlando del calcolatore, esibivano il solito scemenzaio sulla macchina che disumanizza, sul bisogno della manualità, sul rapporto diretto, sanguigno, del fare artistico. Il loro se stesso preferito era ancora quello che dava corpo all’immagine dell’artista in basco e fiocco. Del calcolatore non capivano un cazzo, questa era la verità. Molti pensavano che facesse tutto da solo e la cosa li spaventava un po’: e se la macchina si montasse la testa mostrandosi più intelligente? Tutto faceva credere che quanto si diceva in giro sugli artisti a proposito dei loro pensieri specialmente aperti alle novità e alla sperimentazione, fosse una delle voci che essi stessi avevano messo in giro con la complicità di critici e mercanti per farsi i complimenti a vicenda e per tenere su i prezzi. E infatti, quando si trattava di guardarsi intorno per vedere cosa si poteva fare con i materiali della contemporaneità e come si potevano utilizzare i mezzi di comunicazione, allora si vedeva a occhio nudo quanto fosse grande il loro istinto di conservazione e quanto piccolo l’angolo di divergenza mentale. Per dirne una, Turcato si servì del calcolatore per dimostrare alla provincia italiana che lui continuava a vivere nel suo tempo, come credette di aver fatto anche al tempo del Togliatti in forma di critico d’arte che prescriveva ai compagni artisti dosi massicce di realismo socialista, mentre lui, Turcato, pasticciava l’arte astratta per ribellarsi a Togliatti. Bene, quando Turcato fece entrare i suoi segni nel calcolatore (li vidi nel 1984 all’Electronic art festival di Camerino), doveva essersi convinto che ne sarebbero usciti più ricchi e vitaminizzati, più contemporanei. Non dovette accorgersi che quando s’affacciavano dal monitor, apparivano ancor più poveri e striminziti, più ridicoli di quando se li faceva a mano sulla tela. A me sembrarono autentiche cacate, sempre che non si trattasse di autentiche espressioni di cac-arte che io, venendo dalla provincia, non potevo capire. Per me era un mistero che si valutassero gli artisti, sempre dalle opere riuscite e non anche o magari soprattutto da quelle sbagliate. A furia di farne, anche ai cretini poteva capitare di metterne a punto alcune di bell’aspetto. E se quelle erano le sole che il tempo risparmiava, ecco che venivano consacrate dalla storia come le opere consuete di quegli artisti, mentre potevano essere i linguaggi ad aver fatto tutto da soli. Invece l’analisi degli errori avrebbe indicato a quali livelli avevano fatto le scelte. Gli informatici puri che usavano il calcolatore a fini estetici, quelli che non avevano alle spalle nessuna sapienza pittorica, erano anche peggio di Turcato: si innamoravano dei giochini che la macchina era in grado di fare e li presentavano come prova di abilità, al pari degli automobilisti che avevano un carburatore al posto del cuore, i quali facevano ruggire il motore, per fare credere al mondo circostante di essere loro a ruggire. A parte l’incapacità a produrre immagini come quelle che producevo io, è certo che a nessun informatico sarebbe venuto in mente di farle così, con un programma povero come Paint de Luxe, e di mandarle con volgari proiettori. La filosofia dell’informatico infatti era complementare alla filosofia del fabbricante, il quale ti vendeva sempre un oggetto di cui ti innamoravi subito perché era capace di fare tante belle cosine. Appena avevi finito di giocare però ti accorgevi che quell'oggetto sapeva fare tante cosine, meno una che a te sarebbe piaciuto fare. Il fabbricante, naturalmente, sapeva queste cose: - Non c’è problema - ti diceva, mentre ti invitava a cambiare l’oggetto con un altro, a volte persino meno costoso, che sapeva fare anche quella cosina, più tante altre che non t’immaginavi neppure. Ed era vero: c’erano quelli (soprattutto fra i musicisti) che di cambio in cambio, allettati anche dai prezzi che scendevano sempre, si riempivano la casa di macchine elettroniche che sostituivano in continuazione, convinti che la qualità dei risultati dovesse inevitabilmente legarsi al progresso tecnologico. In realtà, quello che il fabbricante proponeva non era il risultato del progresso tecnologico, ma un uso accorto di piccole innovazioni tecniche proposte col contagocce, al fine di indurti al riacquisto dello stesso oggetto che, rispetto alla sua versione precedente, recava una piccola innovazione, appunto, che rappresentava la cosina di cui avevi bisogno. L’obsolescenza di quegli oggetti si riduceva spesso a pochi mesi. Io riuscivo a resistere come pochi a quegli allettamenti, non tanto perché non avrei saputo dove prendere i soldi necessari al mio implemento tecnologico, quanto perché riuscivo lo stesso ad arricchire le mie diafanie con un programma come il Paint De Luxe, le cui pretese tecnologiche erano così modeste, da essere usato persino dai ragazzini.I CORTRONICI BIDIMENSIONALI I miei primi cortronici 2D (corti elettronici 2D) nascono con una versione animata di Paint De Luxe. È un programma per animazioni bidimensionali (2D), con definizione molto bassa (320x200), che procura il vomito agli informatici dello zoccolo duro, per i quali tanto più la qualità è elevata, quanto più la tecnologia è avanzata, e si sa che quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più sale il prezzo. Come nel medioevo: siccome l’oro e il blu di lapislazzuli costavano un occhio, gli artisti di mezza tacca ma con adeguata disponibilità finanziarie impreziosivano con la foglia d’oro e col blu di lapislazzuli le loro croste. Il criterio di fondo che regola i miei cortronici 2D (se si preferisce, la mia poetica) è analogo a quello delle diafanie: arrivare alle forme, o uscirne, con l’aggiunta o la sottrazione di parti che compongono ogni immagine, così che la prima immagine lasci il posto alla seconde, questa alla terza e così via, in una sorta di compenetrazione continua delle une nelle altre, capace di produrre, nei passaggi intermedi, un meticciato sorprendente di forme. Mentre nelle diafanie le parti vengono scambiate durante le dissolvenze, nei cortronici si muovono in uno spazio bidimensionale. Inoltre, nei cortronici, il legame con la musica è più puntuale e non legato ai tempi lenti e incostanti delle diapositive. Questi infatti, sono condizionati dall’elasticità dei tempi del loro trasporto, e spesso costringono a un uso improprio di un tempo visivo rubato, che però non deriva dal ritardo espressivo di una nota, ma dal ritardo o dall’anticipo incostanti nel formarsi dell’immagine. Tutto ciò rallenta o accelera fastidiosamente il ritmo, senza una ricaduta espressiva. Con Paint De Luxe, raggiungo risultati soddisfacenti in Stop, uno dei primi cortronici che ho realizzato, e in La caduta del desiderio, l’ultima che ho costruito con quel programma e che nelle mie rappresentazioni è risultato il più gettonato. Dopo quel programma, hi usato l’Animator pro sempre bidimensionale ma molto più potente. Potevo lavorare con definizioni che arrivano a 1024x768 pixel, anche se di quelle non sapevo che farmene, visto che per trasferire le animazioni in un videotape, il formato utile era il 640x480, che comunque dava una definizione circa 5 volte più alta del Paint De Luxe. Non per niente, il primo cortronici realizzato con quel programma si chiama Una bella definizione. Con l’Animator pro, ho strizzato il cortronico bidimensionale fino allo spasimo. Francesca la fatina è un cortronico dedicato a una mia nipotina, Francesca, per studiare la musica dei TH26, tre musicisti che si richiamano alla musica electro beat, frastornosa, molto poco ben vista (ben sentita?) dalle orecchie delicate. Li ho conosciuti nella sala compressori della miniera di Monteponi, dove si teneva un rave con musica massacrante, dove io ho mandato i miei cortronici, con un suono di 7000 watt, che significava uscirne sordi. I TH26 mi dicono di essere lì, per rendere un omaggio musicale a W. Borroughs e, mentre mi mettono in mano una telecamera, mi pregano di riprendere l’evento. Ora, Borroughs recitava le sue poesie agli studenti di Berkeley, mentre la polizia li pestava a sangue. Noi eravamo a Monteponi, molti anni dopo, i ragazzi di Iglesias non erano i ragazzi di Berkeley e, alla vista della polizia, se la sarebbero data a gambe per non sciuparsi il trucco. Cosa c’entrava Borroughs con loro? E la musica dedicata a Borroughs come c’entrava? Ho pensato che i TH26 inseguissero, dietro il martellare ossessivo dei rumori erogati a 10.000 watt, aure melodiche intimidite e lontane, chi sa, forse riverberi mentali di suoni inesistenti. Mi sono domandato se le immagini avrebbero enfatizzato quelle aure e chiedo a quelli del TH26 un piccolo brano di prova, riservandomi di lavorare in seguito su un pezzo più lungo. Nasce così Francesca la fatina e, più tardi, Madre del caos, che il gruppo ha utilizzato più volte dal vivo, per cucirvi sopra la musica. L’idea di enfatizzare quelle aure è nata quando lavoravo a Ah, il nuovo che avanza. Volendo misurarmi su un lavoro lungo, avevo chiesto a Favata di montare per me una sua storia musicale di circa mezz’ora. Per raggiungere quella lunghezza, egli aveva accodato un certo numero di brani preconfezionati. Ma non ha fatto un lavoro pulito: in uno dei punti di sutura, ha lasciato uno scroscio che mi mandava in bestia ogni volta che, durante i riascolti di controllo, le immagini cadevano in quel punto, a conclusione di un evento. Ho scoperto che, allungando la durata dell’evento in modo che cada al suo interno, lo scroscio non si sente più. Meglio, si sente ma solo se vado a cercarlo: l’evento visivo schiaccia quello sonoro. Dunque, non è da escludere un’influenza reciproca dei due sistemi, quello visivo e quello sonoro, anche se è stato sempre difficile per me capire come si esercitino in Madre del caos. Ho lavorato a Sinistra consumista, titolo di una poesia di Annamaria Janin, la quale voleva accoppiare a ciascuna delle sue poesie un lavoro dei pittori per farne una cartella di grafica. Lo chiede anche a me, ma siccome non faccio più cose da appendere, deve accontentarsi di una videocassetta. Qualche mese dopo, lavoro a Quel lampo bianco che fissò le ombre sui muri, in ricordo dell’atomica su Hiroshima. La musica è dei Coincidentia oppositorum, un gruppo di giovani compositori che si preparavano alla grande a un concerto che avrebbero eseguito alla cripta di San Domenico. In quel luogo è andato anche Al ristorante della stazione. Ho usato la musica su strutture visive aniconiche, come del resto ho sempre fatto anche con le diafanie. Pensavo di complicare il lavoro proiettando il cortronico mentre un attore avrebbe declamato un testo letterario. Ho scelto Gadda per l’uso che lo scrittore fa della lingua, volto più al controllo delle possibilità di riflessione di quest’ultima su se stessa, che alla costruzione di una facile referenzialità. Il problema era di legare in un unico evento tutti gli ambiti che avrebbero concorso a determinarlo, facendo attenzione che tutto si tenesse. Ma non intendevo progettare le immagini facendo coincidere note alte con colori chiari e note basse con colori scuri. Insomma non intendevo adattare le immagini al testo. Mi interessava verificare se e come i vari linguaggi concorrenti (visivo, musicale, letterario e teatrale) si sarebbero tenuti, in una struttura complessa non ancora (?) condizionata da convenzioni linguistiche, e dove i soli elementi di referenzialità erano contenuti nel testo di Gadda, comunque tutt’altro che facile, e nella musica di Romeo Scaccia che, nella parte finale, sottolinea con citazioni dall’Aida e dalla Carmen l’ironia che lo scrittore, in quel testo, adombra intorno ai patiti della lirica. Sono partito da un’ipotesi semplice che a me sembra ragionevole, anche se forse non lo è del tutto: se ciascuno dei linguaggi si tiene, allora si tiene anche la struttura dove essi giocano insieme. Era una scommessa che valeva la pena fare, per vedere cosa sarebbe successo, lasciando che fossero i linguaggi a decidere. Che il testo di Gadda si tenesse sul piano letterario era fuori di dubbio. Non c’erano dubbi neppure sulla tenuta della musica, né delle immagini. Restava la recitazione la cui tenuta, invece, lasciò a desiderare. Presentando l’opera nella cripta di San Domenico, ho usato due videoproiettori, uno che mandava le immagini su una parete, a fianco dell’attore, e l’altro sui capitelli. Il flusso delle immagini del secondo videoproiettore arrivavano leggermente sfasate rispetto alle immagini del primo, su cui era sincronizzata la musica. Tale sfasamento creava, in chi alternava lo sguardo tra le due sorgenti, un sistema di attese sempre premiate, come in una sorta di eco visiva. Inoltre, in basso, sotto lo spazio che ospitava le immagini a parete, una mezza dozzina di televisori che mandavano immagini casuali trattate e governate da Francesco Casu, un giovane videoartista che mi è piaciuto inserire nell’evento, per vedere cosa succede. Succede che il risultato non è dei più entusiasmanti: troppa ridondanza di segnali, a parte la scarsa tenuta complessiva. I CORTRONICI TRIDIMENSIONALI La potenza del programma che utilizzo per i cortronici tridimensionali spiega bene il problema della complessità. Ciò che voglio dire è che non ho difficoltà a immaginare due serie sovrapposte di fasce uguali, parallele ed equidistanti e che non ne ho neppure a immaginarle reciprocamente ruotate di un tot, una sull’altra. Invece, qualche difficoltà nasce se le fasce da muovere nel mio spazio mentale sono tre: in questo caso, dopo averne ruotato due, devo trattenerle così ruotate, prima di ruotarci sopra la terza, se no l’immagine si sgretola. Con quattro fasce, non ce la faccio proprio. Per capire cosa succede, devo visualizzare il problema su una superficie, cioè devo disegnarmele. con riga e squadra, e seguirne analiticamente il processo, passo dopo passo. E tuttavia, anche in questo caso, non è che “capisca” davvero cosa succede: le dinamiche percettive irrompono pesantemente sul disegno e la mia mente si perde in un intrico di linee rette che si mostrano nel rispetto delle leggi sulla pregnanza, non sempre rispettose della logica del processo. Affrontavo in tal modo quei problemi, cioè disegnandomeli su supporti di vario tipo, fino alla fine degli anni 80, quando mi sembrava utile costruire oggetti di forma quadrangolare da appendere al muro. E, di fronte al groviglio complicato dalla pregnanza, mi dicevo che il risultato relativo alla complessità di quel problema era ciò che avevo davanti agli occhi, e non poteva essere che quello, visto che io stesso l’avevo realizzato, con riga e squadra, seguendo analiticamente il processo, passo dopo passo. Ho smesso di costruire oggetti da appendere al muro, quando ho capito che potevo chiedere a una macchina cretina ma veloce chiamata computer cosa succede a sovrapporre e ruotare tutte le fasce uguali, parallele ed equidistanti che volevo. La macchina mi dava le risposte in tempi brevissimi, e io esclamavo: “cazzo, però!”. E però, a essere sincero, continuo a non capire cosa succede. Infatti, le leggi sulla pregnanza continuano a irrompere: oltre alla mia mente, sono le mie capacità percettive a non farcela. L’intrico di fasce che la macchina mi restituisce riesco a vederlo, ma non riesco a seguirne l’ordine, anche se sono stato io stesso a darlo alla macchina: “ruota la prima di un tot, la seconda di un tot diverso, la terza di un altro ancora, e poi la decima, la tredicesima, la ventiduesima…”, insomma tutte le fasce che voglio, con i gradi di rotazione che voglio, tutti diversi, continuando a esclamare: “cazzo, però!”. A dirla ancora come la dicono a Oxford, quelle complessità sono un vero casino. Alla fine, ho capito che c’è poco da capire e che devo fidarmi: se la macchina dà quelle risposte, quelle risposte devono essere. In fin dei conti, anche quando salgo su un aereo, devo fidarmi: devo fidarmi del pilota, il quale, a sua volta, deve fidarsi del quadro comandi e di quelli che l’hanno costruito, e deve fidarsi anche degli operatori della torre di controllo, i quali devono fidarsi del radar e di quelli che lo hanno costruito, i quali devono fidarsi di quelli che ne hanno studiato i materiali, che li hanno prodotti, controllati, comprati, venduti, montati, trasformati, corretti, aggiornati… Del resto, devo fidarmi anche del macellaio che mi vende il filetto. A farla breve e a pensarci bene, non c’è azione, fra quelle che compiamo ogni giorno, anche la più consueta, che non cavalchi sconosciute e incalcolabili complessità. Ecco, ciò che muove il mio mondo creativo attuale, quello dei cortronici 3D è proprio il problema della complessità, in cui mi piace immergermi in totale libertà e consapevolezza, chiedendo alla macchina cretina ma veloce qualcosa di più che ruotare un certo numero di fasce uguali, parallele ed equidistanti, non solo perché mi piace continuare a esclamare, ma anche per convincermi che le mie creature, per quanto volutamente aniconiche, oppure proprio per questo, risultino tuttavia metafore epistemologiche della realtà, come è giusto che sia per le opere d’arte. Anche con i cortronici 3D il mio rapporto con i materiali è quelle del pittore: sfumati, contrasti, trasparenze. Per prendere confidenza col programma 3D, ho utilizzato i vecchi materiali delle diafanie. Pensavo che sarebbe stata una soluzione provvisoria, tanto per cominciare a capire quali potevano essere le sue potenzialità. Ma, allo stato attuale, i materiali continuano a essere gli stessi, un po’ perché sono miei e ne faccio quel che voglio, un po’ perché mi piace indagare i loro comportamenti, una volta che li decontestualizzo dal loro mondo primigenio delle diafanie, per farli vivere nell’ambiente ben più dilatato del 3D.

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Posted by tonino on Tue, 04 Sep 2007 01:02:00 PST

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Posted by tonino on Thu, 30 Aug 2007 10:08:00 PST

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Posted by tonino on Wed, 04 Jul 2007 01:35:00 PST

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Posted by tonino on Fri, 20 Jun 2008 01:49:00 PST

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Posted by tonino on Thu, 15 May 2008 02:32:00 PST

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Posted by tonino on Sun, 30 Mar 2008 01:37:00 PST