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Potevano Essere Rose

...vogliamo solo la luna...

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-- -- -- myspaceeditor.itPer chi sappia vedere lontano l'unica meta degna è la sconfitta. T. E. Lawrence
La Compagnia Potevano Essere Rose è attiva nel campo dello spettacolo dal 2002. Il gruppo fa capo ai due fondatori, autori, interpreti e ad oggi produttori degli eventi realizzati: Matteo Lolli e Alessandro Lori. La produzione si avvale della collaborazione di diversi, prestigiosi artisti tra cui Ludovica Modugno, Lorenzo Salveti, Paride Furzi e Paolo Terni. La compagnia ha prodotto i seguenti eventi:
•“L’impossibile” (2002) Lungometraggio tratto da “Il monte analogo” di René Daumal. Con Riccardo Scamarcio e Marco Olimpieri.
•“Faust-Marlowe-Burlesque” (2002-2004) di Aldo Trionfo e Lorenzo Salveti. Con Massimo Di Michele.
•“Piccole scene amorose” (2006) di Pierre Louys.
•“Regalis Coena” (2006) di AA.VV. Con Diego Di Stefano
•“Amori” (2006) di Carlo Dossi. Con Paride Furzi al Contrabbasso.
La produzione ha inoltre in cantiere vari, importanti progetti quali: "Il Conte di Olavide" di J. Rodolfo Wilcock,; "“Gigin soave-Grand soiré” da Filippo De Pisis; “Fotografando Dorian” da Oscar Wilde; “Perché credo a Medjugorje” da Raymond Roussell e il “Festival del Suicidio”.
Note su Fotografando Dorian: La piéce teatrale Fotografando Dorian, trasposizione del celebre romanzo di Wilde ai giorni nostri, parodizza proprio le ricontestualizzazioni di vari testi letterari, teatrali e non, che tanto utilizzano i registi odierni… Con questo spettacolo vogliamo affermare decisamente, l’ormai Impossibilità di generare più bambini o opere d’arte, si produce solo merda. Qualora si producesse un’opera d’arte non sarebbe compresa in quanto un pubblico coprofilo non distingue sufflé da uno stronzo.
NOTE DI REGIA “Piccole scene amorose” nasce da un antico amore per Pierre Louys. Ricordo che mia madre, non essendo brava come mia nonna a raccontar fiabe, per farmi addormentare mi leggeva “La donna e il burattino” e “Figlie di tanta madre”. Con questo spettacolo, ora che sono cresciuto, voglio fare un omaggio a mia madre, la sola donna importante della mia vita. Lo spettacolo consiste in una rosa di situazioni piccanti, (per l’appunto di brevi scene erotiche) che vedono due attori cangianti avvicendarsi in ruoli di bambine non troppo ingenue, madri compiacenti e corruttrici, servette dagli strani pruriti, damigelle disinvolte, rispettabili signori puttanieri e “birignaose” signore ninfomani. La presenza della intramontabile Alessandra Vazzoler, già protagonista negli anni ’60 del “Synket” di Aldo Trionfo, aggiunge un tocco di sublime poesia alle amorevoli corruzioni di mia madre. Questo mio inesausto voler ritornare al liquido amniotico, e oserei dire allo stato embrionale, potenziale, inesploso, alla perfetta beatitudine del feto, esprime un profondo disagio rispetto alla mia condizione attuale di “stronzo di merda”.
Matteo Lolli
Note su Perché credo a Medjugorje: Il testo prende le mosse da “Polvere di soli” di Raymond Roussell, il quale utilizza gli elementi tipici del Vaudeville, in questo caso un’eredità nascosta da qualche parte, che scatena una caccia al tesoro nella quale sono implicati un erede, colonnello in pensione, affiancato dall’inseparabile compagno e un losco personaggio, gestore di un albergo malfamato. Questi elementi rielaborati da Roussell diventano assolutamente secondari rispetto a un personalissimo modo di affrontare la scrittura, e quindi il linguaggio stesso, che si realizza in un continuo, intricatissimo gioco di deduzioni, calembour, anagrammi, lacerti di miti, favole, leggende, felicemente fuor della grazia di Dio. Pur mantenendo la ferrea struttura di Roussell, il testo originale è diventato per noi un punto di partenza per la creazione di ulteriori incunaboli letterari e musicali, con lacerti di Cocteau, Miles Davis, un antico libro di cucina, Rameau, Natalia Ginzburg, Haendel, Georges Bataille, Sidney Bechet, Aretino, ma soprattutto Sade, “L’Arte di Petare” e Pierre Louys, in un progressivo “plaisir de descendre”, dove finisce polverizzato anche il testo di Roussell, la cui bellezza tramonta definitivamente davanti agli occhi della barbarie attuale. L’unica possibilità di fare Teatro che ci resta è quella di continuare a baciarci, come i vecchi pederasti morenti dell’ultima scena.
Note su Gigin Soave Grand Soirée:
Fin dalla prima giovinezza ferrarese di De Pisis si afferma l’interesse dell’eleganza nel vestire e in tutto quel che circonda l’uomo, cioè per un modo di vita che si esprimeva in uno stile esteriore, in una apparenza che andava sostenuta e difesa quale segno di appartenenza a una classe sociale elevata e nello stesso tempo a una categoria intellettuale d’eccezione. Questo avviene quando il giovane letterato si dedicava ai profondi studi eruditi sui pittori minori ferraresi o sulle opere d’arte della sua città. Proprio in questo clima copiava i gioielli delle antiche famiglie bolognesi, copiava e commentava particolari di abbigliamento o arredamento antichi, motivi ornamentali liberty, elementi decorativi antichi e moderni. Sono tutte immagini nelle quali De Pisis individua un concetto di eleganza che cerca di trasportare in certi suoi modi eccentrici di vestire che sono documentati ancora da fotografie in veste da “umanista”, da “bonzo” o da cacciatore di farfalle. Per De Pisis l’eleganza, cioè l’aspetto esteriore dell’umano, è sempre il prodotto e lo specchio di un atteggiamento mentale quindi il tema ideale per una ricerca psicologica. Oltre alle pagine scritte, frammentarie e di varie epoche, a testimoniare l’interesse di Filippo De Pisis per l’eleganza, resta tutta la sua vita, la sua capacità di trasferire in un clima di aristocrazia dello spirito ogni apparenza del presente, identificando così l’eleganza con la poesia. Lo spettacolo ha come riferimento la struttura di una gran serata mondana dove diversi meravigliosi modelli con andamento dinoccolato sfilano su una passerella. Queste premesse sono continuamente smentite da una luce caravaggesca e dall’avvicendarsi delle apparizioni dei fantasmi privati dell’io molteplice di De Pisis introdotti da temi musicali. La scena è di volta in volta abitata dai vari alter ego dell’artista (gondoliere, cadorino, carrettiere, etc.) che evocano sensazioni vivissime, impressioni di una sensibilità e di una sensualità morbose, di un eros vibrante e contemplativo: colori, forme, odori, sapori e irripetibili circostanze che danno luogo a percezioni indicibili. Le tante personalità che abitano De Pisis sono il frutto dell’originaria lacerazione interiore che è radice dell’essere poeta.

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