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CON LA LUNA LE MAREE: CAPITOLO I.
Uscì di casa presto quella mattina, come del resto faceva ogni santo giorno. Salì in macchina e si diresse volando verso la scuola: non aveva null’ altro da fare. Erano ormai venticinque anni che questo succedeva e nonostante tutto la noia era lungi dal farlo rattristare. Passavano gli anni. Follino pensava di essere sempre lo stesso. Con i suoi alunni era gioviale, brillante, con la battuta giusta nel cartucciere, da sparare nel momento più opportuno. Non si accorgeva che il mondo intorno a lui correva, con una velocità spaventosa. Di anno in anno le sue classi cambiavano e con loro i discenti, mentre lui rimaneva uguale, allacciato al suo modo d’ essere, così pieno di sé e così barboso. Erano in fondo battute buone per essere gustate una volta, proprio come quelle canzoncine stupide che si sentono alla radio per un estate e poi scompaiono dagli occhi di tutti, buttate nel cestino da chissà chi. Arrivò nel parcheggiò della scuola. Scese dall’ auto e si diresse verso il liceo dove insegnava. Tirato qualche centesimo nel copricapo che Hermann teneva appoggiato sulle sue ginocchia stanche e stropicciate, si diresse verso l’ entrata. Arrivato in sala insegnanti, si sedette e si fermò. Quella mattina qualcosa non era andato per il verso giusto. Aveva letto su qualche manifesto per strada una frase che gli era rimasta in pressa. Si era conficcata così tanto dentro al suo cervello che non riusciva quasi più a ricordarla. Era rimasto solo il drappo che reggeva quel sipario vellutato. Ed era un drappeggio scuro. In quel momento si rese conto del valore che la sua vita aveva. L’amore che provava per la scuola altro non era che l’ amore per la fuggevolezza delle cose a lui care. L’ aver sempre vissuto da solo lo aveva in qualche misura addormentato e nessuno dei suoi alunni avrebbe mai fatto tanto per lui, proprio perché lui non aveva mai dato niente a loro. Rimase immobile. Pietrificato. Sentiva un brusio lontano. Rumore di tacchi che salgono scale. Schiamazzi e risate che lui cominciò in quel momento ad odiare. E a temere. In un balzo si rificcò di tutta fretta il mantello e corse in bagno, cercando di fuggire dal pensiero che lo attanagliava. Si chiuse dentro e cominciò a piangere. Pianse come non aveva mai fatto, e gli vennero in mente quei momenti, quando da bambino non riusciva a smettere di burlarsi dei suoi compagni più goffi. Era lui che dava soprannomi e nomignoli agli altri. Gli vennero in mente tutti i volti delle persone che sapeva lo odiassero, delle ragazze che aveva preso in giro, degli amici che aveva perso. Lo specchio si riempì allora di sangue. Grondava dal neon che stava sopra al lavandino. Grumi di sangue che scorrevano lenti verso il rubinetto. A Follino non interessava. Quella era semplicemente una degna pennellata nel triste ritratto del suo mattino. Cercò di vomitare. Non vi riuscì. Il nodo alla sua gola era ormai stretto come un cappio. Sentì allora delle grida infernali provenire da dietro: voci torbide e squillanti che lo insultavano, lo schernivano e tossivano miseria. Aveva appoggiato le mani sullo specchio, quasi per accarezzare la sua immagine riflessa e si sentì il palmo delle mani sporco e umido. Si girò lentamente in direzione di quelle che parevano voci e vide la tazza del cesso muoversi come labbra arcigne che veloci lo facevano impazzire. Vide il cesso sbraitare ed imprecare contro di lui, mentre una strana schiuma si faceva strada su per lo scarico. Ebbe paura. Per la prima volta nella sua vita ammise di aver paura. Terrorizzato prese in mano il pomello della porta e tirò verso se con tutta l’ adrenalina che gli attraversava i nervi. Aperta la porta si trovo dinnanzi ad un abisso infinito: un vortice pulsante color della porpora lo invitava a valicare quella soglia, e allo stesso tempo lo metteva in guardia. Laggiù era pericoloso. Follino chiuse gli occhi e spiccò un balzo, volando dentro quel nulla che in qualche modo egli aveva riconosciuto. Era familiare. Nuotò volando attraverso i secoli. Vide passando scorci di battaglie epiche, la sfollata di Nabucco e la disfatta di Waterloo, passando attraverso antichi fori imperiali e angusti chiostri di cattedrali irlandesi. Visse la Vita dalle sue origini fino al momento prima di entrare in quella toilette. Visse la vita di tutti gli uomini che avevano popolato la terra dall’ origine dei tempi. Le sentì battere e respirare sotto la sua pelle. Stava volando sopra il mondo che in quell’ istante eterno aveva deciso di essere parte di lui. E smise di piangere. Smise di pensare alla sua maledetta carriera di professore frustrato. Il mondo glielo aveva impedito. Si trovò a valicare cime innevate in groppa a ciuchi roboanti, ad attraversare oceani su zattere giganti, e con lui, compagni di viaggio sinceri, fedeli, a cui non importava chi egli fosse. A quelle genti importava solo che lui fosse lì, con loro. Così Follino si accorse della bellezza dell’ amore, della luce che traspare da un semplice sorriso. Si infatuò della semplicità, della voglia di essere Vivo. Si senti puro, come una madre che dispensa poppate alla sua prole, come un pescatore al lago d’ estate. Alla fine dell’ eternità vide una porta. Giaceva stesa in terra, con muschi ed erbacce che la coprivano di un tepore materno. In prossimità di quella porta toccò terra e approdò su di un’ isola nera, inchiodata e sostenuta nel cosmo da misteriose forze d’ equilibrio. Da lì guardò il mare e tutta la strada che aveva percorso. Si sentiva forte, fiero e, soprattutto, riconoscente. Tentò di aprire la porta ma quelle dannate erbacce glielo impedivano. Si sentì un forte scroscio, un suono sordo che arrivava correndo da occidente. Si voltò: una palla di fuoco blu stava arrivando da dove tutto era partito. La luce a quel punto era quasi impercettibile tanto era invadente. Le tenebre agli occhi di Follino erano le stesse che lo avevano cullato fin laggiù. Tentò nuovamente di aprire quella porta. La galassia incandescente distava ormai qualche volo da lì. Mentre le erbacce avevano già cominciato a ridere.
CAPITOLO II:
Questa sera è la sera. Non puoi chiamarti fuori, Phil!- dall’altro capo del telefono, con voce perplessa: -Sai Teo, non saprei…forse stiamo commettendo lo sbaglio più grande della nostra vita…uhm…A volte è piacevole superare i propri primati…non solo quelli col segno meno davan… Teo lo interruppe: “Smettila con le tue idiozie, cazzo, oppure la testa te la faccio saltare io, senza troppi problemi. Sono anni ormai che io, tu e gli altri parliamo e viviamo solo in funzione di quel giorno. Bene, quel giorno è arrivato ed è arrivato anche per te, credimi…prova a guardarti dentro Phil, guardati in fondo all’anima…sono certo che ti verranno in mente tutti i momenti che abbiamo passato insieme negli ultimi anni…e tutti portano a stasera…non mi deludere. Ci incontriamo al grande cancello, giù al porto, intorno alle 7. Ciao sciocco” e riattaccò.Phil rimase incollato a quel dannato telefono ancora per un po’, lo sguardo fisso verso la parete, quella telefonata lo aveva turbato. Stava pensando a miliardi di cose, l’una contemporaneamente all’altra, e non ci stava capendo nulla. Così decise: si accese una sigaretta e sedette sul divano, con l’improbabile intento di pensare; metodicamente; alla propria vita. Voleva quantificare il valore delle cose che fino a quel momento aveva vissuto. C’era nebbia fuori. Talmente tanta da stuzzicarlo. Si alzò. Un appetito di curiosità aveva vinto la sua riluttanza al movimento; si diresse verso la finestra. La aprì e diede uno sguardo fuori: questa nebbia è veramente fantastica – pensò – così densa, liquida e avvolgente. Potrebbe nascondere qualsiasi cosa mantenendo intatta la propria innocenza, la propria purezza. Mentre farneticava a proposito della nebbia e di tutte le sue possibili varianti si accorse della presenza di un uomo, in un balcone del palazzo di fronte. Anche lui stava fumando. “Ho già visto quel tizio da qualche parte” pensò. Incominciò a scervellarsi: “come accidenti si chiama!?!? Eppure…”.Intravide fra la foschia un altro signore, su di un altro balcone. Anche lui stava fumando. I gomiti appoggiati sul parapetto. Le gambe incrociate, dietro. Phil mise inconsapevolmente a fuoco l’intera facciata del palazzo e presto si accorse che per ciascuna finestra c’era un uomo, sigaretta accesa, grigio in volto. In un attimo, un’epifania, realizzò, che quella dolce e stravagante nebbia non era altro che fumo, pregno di rassegnazione e tristezza di quei bastardi del palazzo di fronte. Chiuse la finestra e tornò a sedersi sul divano, un po’ più triste e stanco di prima. Ma non troppo. “In realtà – si disse – non c’è nulla su cui riflettere. La mia vita non è altro che la storia di un fannullone che si è sempre lasciato trasportare dove l’acqua correva, cercando di fare sempre il minimo indispensabile, per non annegare. Ho mai avuto veri amici? Beh, si, da bambino certamente, ma ora non ci sono più…il nostro piccolo gruppetto si è sgretolato e di quel fantastico mondo siamo avanzati solo io, Teo, John e Pond. E le ragazze…chissà…se avessi conosciuto altre ragazze probabilmente non mi sarei cacciato in tutti i guai che ho avuto….e quanti dispiaceri per i miei vecchi – si accese un’altra sigaretta. Voleva che i suoi farnetichii avessero come degno compagno l’odore acre del suo tabacco bruciato. Continuò a riflettere su di sé, in volto quel sorriso di chi prende la vita con sarcasmo, anche al cospetto delle migliaia di sconfitte-mattoni che vanno a costruirla. Si stava perdendo…poi decise:”questa sera sarò con Teo e gli altri…per l’ultima volta”. Spense la cicca e si coricò. Non riusciva a dormire. Il sole penetrava le sue pupille, amplificando la sua emicrania e stuzzicando i suoi nervi, già a fior di pelle. Il tempo scorreva veloce. Dopo qualche istante erano già le sette.”Cazzo!!! – pensò – Già le sette!?! Devo andare!!!”. Si vesti in fretta, indossando il suo maglione di lana verde, jeans viola, come al solito del resto, e poco altro. Se ne andò al porto scalzo.Arrivò puntuale a quell’appuntamento. Lo capì perché nessuno lo insultò o cose di questo tipo. “Ehi Phil – domandarono all’ unisono John e Pond – sei pronto per stasera?” “Beh…in effetti…” in quel momento Teo interruppe l’amico sbucando fuori dalla sua auto parcheggiata lì a fianco. Aveva gli occhi completamente iniettati di sangue, ma non incutevano timore: forse era da giorni che non chiudeva occhio, pensando a quello che sarebbe successo. Batté con la mano sulla spalla di Phil e disse:”Non riesco più ad aspettare! Questa cazzo di attesa mi sta logorando…rischio di morire prima del previsto” ed esplose in una risata isterica e liberatoria che fece breccia nello spirito dei compagni, tanto che Pond propose con successo di iniziare a raccogliere e preparare gli attrezzi dalla machina, e di recarsi al posto predefinito, per consumare la loro ultima serata. Teo era l’unico ad avere preso la macchina. Il baule era aperto. Al suo interno tanta marijuana, pasticche in quantità, del buon whisky invecchiato e quattro pistole calibro 12.I quattro si divisero il bottino e si diressero verso una vecchia casa diroccata proprio in prossimità del porto. Entrarono senza alcun problema. Qualcuno ebbe l’idea di sigillare la porta con qualche asse e qualche martellata, per evitare che spiacevoli visitatori potessero rovinare la loro festa. Si accomodarono nella stanza più grande dell’edificio, forse una stanza da letto, o una sala da pranzo, o che so io… Rovesciarono tutto quello che avevano portato in terra. Si sedettero. John e Phil cominciarono a rullare spinelli a ripetizione, mentre Teo e Pond, fra un bicchierino e l’altro, lucidavano-caricavano-giocherellavano con le quattro pistole. A Phil non piaceva molto fumare quella roba. Aveva avuto brutte esperienze e così aveva deciso di smettere. Una volta aveva fumato talmente tanto che era riuscito a mandare il suo cuore in aritmia. Ma si stava divertendo in una di quelle sfide che di solito si fanno in solitario. Del tipo: se riesco ad aprire la porta di casa con la prima chiave che viene dal mazzo, domani sarà una bella giornata per me; oppure, stasera mi sono comportato correttamente. La chiave era spesso quella di un’ altra porta. Beh, quella volta si stava divertendo, fino a quando la situazione non era sfuggita dalle sue mani: il cuore pareva una drum machine impazzita che pulsava fiotti di sangue in quantità troppo diverse per potere rimanere lucidi. Allucinazioni apocalittiche, sintomi di morte, che seppe poi essere passata proprio ad un passo da lui. In quella stanza però, si divertiva a rullare, perché non riusciva mai a chiuderle in maniera decente e provava piacere nel farsi insultare dal primo espertoide che capitava dalle sue parti. Questa volta toccò a John: ”Ehi Phil…ma che cazzo fai!?! Hai bisogno di un insegnante di sostegno?!! Fatti da una parte e chiudila dal centro…mamma mia! – si versò del whisky nel bicchiere – quarant’ anni e non sapersi ancora rullare una canna…è inquietante”. Esplose in una risata benevola. Intanto si era fatto notte. I quattro rimasero in quella stanza per ore, imbottendosi di pasticche, fumando e bevendo incessantemente. Tutti eccetto Phil, che beveva il suo whisky , fumando le sue maledette sigarette, una dietro l’altra. Ad un tratto Teo prese la pistola, nascosta assieme alle altre sotto il suo giubbotto. Passò un istante. Tutti capirono che il momento era arrivato. Persino Phil era stanchissimo. Aveva molto sonno ed in quelle condizioni – pensò – è facile confondersi con questi tre pasticcomani. “Phil, John, Pond, siete stati i miei migliori amici e per questo vi ho amato. Siamo insieme anche in questo momento, e ficchiamolo in culo a quel bastardo che ci ha scoreggiato su questa terra!!! Abbiamo aspettato troppi anni….è ora di farla finita, non è vero!?!?” John e Pond annuirono festosamente come due perfetti idioti mentre Phil si preparava a prendere confidenza con la sua pistola. In lui si stava insinuando la paura. Terrore, figlio del rimpianto di cui si era sempre cibato. Il rimpianto di non potere più tornare indietro, che lo immobilizzava. Bastò tuttavia un’occhiata di Pond, l’unico ancora abbastanza lucido per capire quello che bolliva nella testa dell’ amico, per seppellire definitivamente ogni improbabile pensiero di fuga.Tutti erano pronti. Il grilletto sull’ attenti e la canna puntata in gola. “Ragazzi. Insieme al mio tre” …1… …2……3.Subito dopo quel tonfo che riempì l’aria, a terra giunse come una soffice pioggia di vapore e di rosso, detriti e resti umani. In brevissimo tempo il sangue che fuori usciva dai quattro corpi ricoprì il pavimento, mentre fuori faceva mattino. Qualcosa poi si mosse. Il piede di Phil si contorceva nevroticamente. Dopo qualche istante, Phil sedeva in terra, impregnato di sangue e urina. Com’ era possibile?!? “Ma perché cazzo sono ancora vivo?!?! – si domandò. Immediatamente si rispose – non sono stato in grado neppure di uccidermi…eppure ho sparato forte…ho mirato alla testa…devo aver colpito qualche centro nervoso addetto alla custodia del…che ne so…del cuore!?!”. Zona morta da tempo – pensò. “Beh, comunque…” e si interruppe. Vide a terra i suoi tre amici sfigurati, avvolti e coperti in un bagno di sangue. Loro erano la sua vita e quella era la fine che avevano fatto. “Raccontare la sfortuna di essere sopravvissuti ai propri cari?!? Non sia mai…” – pensò. Così prese la pistola in pugno, la caricò e premette il grilletto per la seconda volta. Fu anche l’ultima.
Capitolo III:
Lunedì 25 settembre, ore 5:18
Io e la mia famiglia abitiamo in una piccola specie di mansarda tutta fatta di legno chiaro. E' molto accogliente e di giorno fa risaltare tutto il sole che entra dai lucernai. Abbiamo un letto a castello, il mio letto e quello di mamma. Matrimoniale, ma lei dorme sola, non so il perché. Mio fratello deve avere al massimo 18 anni mentre mia sorella è poco più grande di me, sui 10-12. Tutte le mattine ci alziamo, facciamo colazione assieme e siamo tutti ancora in vestaglia. Bianca, con delle parti ricamate, intorno al collo. Tutte chiaramente tranne mio fratello, che ha addosso il suo solito pigiama castagna scolorito. E ci deve essere del caffè latte nelle nostre tazze. Con dei dolcetti squisiti. Di quelli che puoi trovare solo nel forno più vecchio del paese. La mamma mi ha sempre ricoperto di attenzioni. Posso dire di essere da sempre stata la sua preferita, anche quando non ero ancora nata ed ero solo un semplice sogno. Forse è per questa sua così forte attrazione verso me che sono nata allergica all’elettricità.
Sissignore! Io non posso venire a contatto oppure usare in nessun modo dei giocattoli o cose ben più inutili che siano alimentate ad elettricità. Diventerei – questo ce lo hanno confidato i medici che mi visitarono quando ancora ero in fasce – una specie di frullato di bambina. Caldo fumante. Per questo in casa mi hanno sempre tenuto a distanza da tutti gli elettrodomestici, ferri da stiro, asciuga capelli e quant’altro. Fino a quando mamma non decise di rovesciare la sua vita sul tavolo e cercare fra tutte quelle cianfrusaglie qualcosa che potesse darle un senso.
Da un giorno all’altro vedo la mia casa cambiare. Ora è fatta di diversi ambienti, sistemati su più piani. E nonostante questo mi ci ritrovo, proprio comese fosse da sempre stata così. Ricordo di essermi trovata nell’ingresso quando ho sentito il rumore che suonava proprio come quando si cuoce della carne sulla piastra. Sono corsa in camera da letto perché era da lì che proveniva quel suono. E là trovo mamma che sta piantando il ferro da stiro bollente in faccia a mio fratello, che è già uno spiedino. Ma la sadica energia di mamma non sembra volersi placare così facilmente: e preme con una forza demoniaca la testa del mio fratellone contro l’acciaio di quella macchina d’ustione, fino a quando il suo volto non rimane sfigurato da bolle d’acqua e bruciature. Poi con tutta naturalezza mamma si getta su mia sorella: stesso macabro rituale. E mentre vedo mia sorella cadere dal secondo piano del letto a castello e frantumarsi al suolo, in una nuvola di cenere, mi accorgo che mamma è cambiata. Ha dei capelli arruffati e di un blù che pare la verniciatura di una macchina sportiva, sotto al sole. Il viso è bianco acido, colore del latte lasciato aperto per settimane nel frigorifero. Le sue pupille coperte da piaghe, reverberate su profondi solchi neri e blu, proprio sopra le guance. Ed è lì che il mio terrore riesce a muovermi le gambe. Fuoco sulla miccia della mia reazione. Ma sono impigliata ed avvolta in una sciarpa color d’oro che mi impedisce di fuggire. Io ci provo a liberarmi, ma quella criniera di fili dorati non vuole lasciarmi. E mentre tento di liberarmi mi vedo da fuori, e sembro un gomitolo di lana impazzito lanciato per essere inseguito da un giovane gatto. Da un micio. Di quelli che catturano topolini e ci giocchicchiano fino a farli sanguinare. A quel punto mamma scende dal letto a castello, si avvicina a me. Il suo viso ha perso ogni pennellata d’espressività. Si avvicina e mi libera da quel garbuglio. Nelle mie orecchie ora la sento sussurrare: “Tu riuscirai a studiare all’università. Riuscirai a farti una famiglia tranquilla, e dimenticherai tutto quello che hai dovuto sopportare fin’ora. Adesso calmati. Adesso, calmati”. E pronunciate queste parole la vedo scomparire. In un istante non c’è più. Dissolta. Espiata.
Dal cancello del giardino, fuori casa puoi ancora vedere la porta aperta, del vento che entra. E qualcosa d’altro che da quel momento fino alla fine del tempo continuerà ad uscire invisibile, per sempre.

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