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Roberto Mancini

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Fino a qualche tempo fa c’era, adesso non so. È una scritta, sul muro che fiancheggia il campo d’allenamento della Sampdoria, sopra Bogliasco. È un inno al Mancio. Di lui parlano, ancora, al bar, all’edicola, nella pizzeria vista mare dove a ndavano allora i giocatori. Altro calcio, altra gente, altri profumi. Mettiamola così: Mancini è uno che a Genova ha fermato il tempo. Quella Samp fu una leggenda. Così, nessuno ha mai cancellato la scritta. A dirla tutta, fu una leggenda pure a Bologna. Dove era arrivato giovanissimo, nell’81, sfiorando anche allora l’Inter. Ma poi, prese la via del mare. E della leggenda. Si realizza esattamente dieci anni dopo. Nella stagione 90/91, scudetto della Sampdoria. Il numero dieci, in questa storia, ha un suo peso.Lui, Vialli, Pagliuca. Anche Marco Branca ha giocato lì. Al campo si arriva per una strada a curve, si abbandona il mare e si sale in collina. È un attimo. Il blu lascia posto al verde. È la Liguria. Al campo della Sampdoria ci sono finita per Inter Channel, in tempi non sospetti. Volevo ripercorrere la storia di Mancini Roberto, nato a Jesi quarant’anni fa. Uno dei tanti che da ragazzini provano a giocare a calcio, anzi, a pallone, si dice così. Uno dei pochissimi a farcela. A farcela alla grande: a venirne fuori da esemplare unico, di quelli cui si abbinano i termini, classe, fantasia, intelligenza. Volevo capire, per esempio, come si fa ad affrontare certe scelte. A rinunciare a un sogno per lealtà nei confronti dei tifosi. A metterci la faccia sempre e comunque. A non pentirsi. Lui, poi, l’ho incontrato a Firenze, allora allenava lì. Aveva vinto una Coppa Italia e gestiva un gruppo di cui doveva inventare, praticamente da solo, il futuro. La Fiorentina era già allo sbando, lui non voleva sbandare. Questione di carattere. Me lo ricordo, seduto in tribuna all’Artemio Franchi vuoto. Un guerriero.Tornai a casa con alcune idee. Che fosse un grande, e che fosse una specie di uomo ponte, fra un calcio del passato e quello che invece ci stava aspettando. Mi venne in mente che gente come Mancini fosse la soluzione. Aveva parlato di Paolo Mantovani come fosse un padre, di Massimo Moratti come fosse non un sognatore, neanche un generoso, ne aveva parlato come di una persona cui affezionarsi, in cui credere.Facemmo un gioco. Si poteva tornare indietro, accettare l’offerta dell’Inter, venirci a giocare. Sì, si poteva, tanto questa era una storia immaginata, ma perfino quella vera era così strana nella sua straordinaria normalità da sembrare immaginata. Prendete il presidente di uno dei club più importanti del mondo e mettetelo insieme a uno dei numeri dieci più importanti del mondo. Ma non fateli incontrare, che so, in un grande albergo di Milano, no, metteteli in un sera d’inverno a tavola in una cittadina né bella né brutta, al confine fra la Liguria e la Lombardia. Tortona, che di carino ha giusto un piccolo, vecchio centro storico e una madonnina d’oro che svetta nella nebbia. Utilizzate questa scenografia, perché è stata quella vera. Come è stato vero l’entusiasmo, come è stato reale il rammarico di rinunciare per non riuscire a dire di no a un pubblico. La Samp aveva perso Mantovani, non poteva perdere anche Mancini.Che finale dare alla storia che non c’era stata? Avremmo vinto, mi fece lui, di sicuro avrei dato il massimo. Forse ho sbagliato, ma non me la sono sentita di abbandonare quella gente. La parola ‘forse’ la utilizzò per un suo dubbio personale, sull’Inter di dubbi non ne aveva. Poi, di fatto, la Sampdoria chiuse un ciclo, anzi, era già chiuso e lui se ne andò alla Lazio. Con Sven Goran Eriksson. Sempre più uomo ponte, fra il calcio che non c’è più e quello che verrà. Giocatore, allenatore in seconda, forse manager. Uno capace di avere tutti i ruoli, diceva il suo gemello del gol che era andato ad allenare in Inghilterra. Gianluca Vialli raccontava che sì, sarebbe stato meglio per lui venire all’Inter, giocarci, ma anche che Mancini non sempre sceglie le soluzioni più facili. È uno capace di fare scelte scomode.È un numero dieci. È uno dei migliori numeri dieci della storia. Forse lo è dentro, dev’essere che quel dieci che ti porti sulla maglia ti segna, o forse l’hai preso perché potevi solo essere così. I numeri dieci, quando lo sono sul serio, sono gli uomini che danno l’anima alla squadra. Sono irripetibili. Poi Eriksson se ne andò in Inghilterra, da ct. Avevano portato a casa uno scudetto, cinque coppe, avevano vinto.Quando ho incontrato Mancini a Firenze, tutto era già successo, molto doveva ancora succedere. La Fiorentina di Roberto Mancini dev’essere stata una prova scomoda. Ci arriva che ancora si parla della viola come di una grande realtà del calcio italiano. Ma dura poco. L’uragano è dietro l’angolo. Mancini vince a Firenze una Coppa Italia senza garanzie, senza nulla. Se non quella sua forza da numero dieci, e da capitano, che sono diventate la sua forza da allenatore. La passa alla squadra.Dopo, torna a Roma. Sempre Lazio, all’inizio dev’essere sembrato facile, ma poi è tornato a doverci mettere la faccia. Voci allarmanti, giocatori da motivare oltre la frontiera più conosciuta a tutti nel calcio di oggi, il denaro. Dev’essere stato entusiasmante, proprio perché è diventata una grande sfida. Fino all’ultima finale di Coppa Italia. Il destino gioca degli scherzi strani, quella partita la vedo con Karl Heinz Rummenigge a Monaco di Baviera, felici come avessimo vinto noi, dev’essere che quel modo di sfiancare la Juventus e metterla alle corde, suona come una specie di rivincita.Mancini è uno che ha dato tutto quello che poteva dare ovunque si sia messo in discussione. È uno che si espone senza condizioni. Detta così sembrerebbe quasi da icona del passato, ma questo è un uomo fortemente ancorato al presente. Rintracciare Roberto Mancini in rete, vuol dire approdare in meno di un secondo a 79.900 risultati, tanto che il motore di ricerca consiglia qualche griglia. Ha un sito suo, dove leggi che gli piacciono le lasagne e Michelle Pfeiffer. Neanche quanto a macchine scherza. È pure bello. È un vero uomo ponte, fra il numero dieci che era e l’allenatore che è.Su quel muro del campo di Bogliasco al confine fra il mare e la collina, c’è dipinta anche la faccia del lupo di mare che simboleggia da sempre la Sampdoria. Lui se l’è tatuata su un polpaccio. Non so in quale giorno o notte abbia deciso di rimettersi in gioco da noi. So che se gli si parla, è come se fosse un destino segnato. Una storia di affinità elettive. Di sintonie. Tipo una canzone, che non ha ancora inventato nessuno, parole di Paolo Conte e ritmo dei Dire Straits.

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Cari ragazzi, come sapete non mi piace molto parlare, soprattutto di me, ma da giorni sentivo il bisogno di dirvi qualcosa e credo che sia arrivato il momento giusto.Ho letto tutti i vostri messaggi, sono rimasto molto colpito da tante manifestazioni di affetto e confesso che mi sono anche un po’ emozionato ripensando ai momenti belli di questi anni che abbiamo passato insieme. Vi ringrazio con tutto il cuore, non potete immaginare quanto sia bello essere ricordati così. Ma io sono stato un allenatore dell’Inter e gli allenatori, così come i giocatori, passano. L’Inter invece resterà per sempre e voi siete soprattutto tifosi dell’Inter, questa è la cosa più importante: la squadra ha bisogno di voi. Grazie ancora e un abbraccio forte, anch’io non vi dimenticherò mai

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