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Monica (Jazz, Bossa, Latin)

About Me

Dear Friends, Last March I discovered "myspace" almost by chance as I wanted to contact a pianist. Once I got there I thought that this site could be a wonderful occasion to express my feelings through my singing and my writings so I opened on 31st of May my first music profile where I sing the beautiful songs of a very talented composer "Janet Holroyd". Today, 4th of January 2008, while I was at home, I thought that I could try to open another page where to put some old standards that I love to sing and that I'm recording at the moment in collaboration with the same wonderful pianist Roger Rossignol, who worked with me for my project with Janet. So here I am again, it's always me, the same romantic grown up girl who believes in love and family, music and writing, and in all the good things that this fascinating and challenging life can offer!
Here they are my two novels, which I would like to translate and publish both in English and French language, if any serious editor is interested, please contact me.
"Immaginando Budapest" published in 2004
"Carmen del Adagio" published in 2002
Estratto capitolo V di "Immaginando Budapest"
“Oggi niente torta” si scusa ironicamente l’ungherese, “dovremo accontentarci di secchi biscotti”, “non importa, anzi meglio, a furia di frequentarla ho sicuramente messo da parte un paio di chili di troppo” replica Laura. Il salone le attende con il suo fiero mobilio. Oramai Laura si sente a suo agio in mezzo a quegli argenti preziosi ed ai pesanti tessuti damascati. La sua poltrona è sempre lì, di fianco ad una scrivania che le ricorda quella Luigi XV del nonno, si lascia andare con una certa confidenza sui suoi morbidi ed avvolgenti cuscini, pronta ad ascoltare un altro pezzo di quel romanzo vissuto. “Sto leggendo un libro sull’Ungheria, mi sta davvero prendendo, soprattutto perché è una storia che ignoravo completamente” osa Laura. “ E’ una storia aspra, ma affascinante: sono fiera del mio popolo anche se, come tutti i popoli, ha le sue macchie scure. Dove sei arrivata?” Domanda Susanne con interesse. “Alla fine della II guerra mondiale ed all’assedio di Budapest”, risponde Laura con discrezione, timorosa di suscitare altri dolorosi ricordi. La signora abbassa gli occhi, porta la tazza alla bocca e beve un sorso del tè preparato poco prima. “Giorni terribili” commenta a bassa voce l’anziana signora. Laura intuisce che un velo d’ombra si è posato sulle lontane eppur ancor nitide immagini racchiuse nella memoria della sua narratrice, si sente in imbarazzo per aver sollevato una tenda che forse non doveva scostare. Un fragore di stoviglie cadute e frantumate proviene dalla cucina. Un attimo di terrore per un rumore banale. Susanne si precipita nell’altra stanza, ritorna con i cocci di una delle sue belle tazze in porcellana tedesca. “L’avevo appoggiata male, ed è caduta. Pazienza”. “ Ti stai chiedendo se di quei giorni ti ho già tutto raccontato o se ho omesso qualche particolare, lo so. Non c’è storia che si rispetti che non abbia i suoi segreti da accudire”. Laura è spiacente, mangia un biscotto e non osa dire nulla. “Avrai sicuramente letto che durante l’assedio di Budapest da parte dei russi la città fu messa a fuoco. Lo sciaccallaggio era all’ordine del giorno, molti degli amici della mia famiglia non riuscirono a sottrarsi a quel tragico destino, videro portare via tutti gli oggetti delle loro case, dai piú insignificanti ai piú preziosi, compresi indumenti. Io e mia madre eravamo attonite del fatto che una buona stella ci avesse protetto e che la nostra abitazione fosse stata risparmiata dall’ennesima tragedia. Quando mio padre morì, l’estate aveva già fatto il suo prepotente ingresso con una calura eccezionale, credo di avertelo raccontato questo. Il peggio del terrore sembrava essere passato, le truppe sovietiche si erano insediate per un tempo indefinito a Budapest e la paura andava diminuendo, ma rimaneva ancora molto pericoloso circolare per le strade. Io e mia madre uscivamo di rado e stavamo raccogliendo le nostre cose per sfollare appunto in campagna, come avevamo deciso prima della morte di mio padre. Qualche giorno successivo al tragico lutto, ormai pronte con bauli e cartoni, mia madre uscì per andare a fare visita ad una sua amica malata che aveva perduto la casa, vittima di un incendio doloso causato da alcuni saccheggiatori che avevano portato via ogni cosa. Io eseguii il suo ordine perentorio di stare in casa: dopo il primo momento di totale abbandono e disperazione, quella fragile donna aveva trovato in sé una determinazione ed un coraggio che ai miei occhi erano sconosciuti ed estranei alla sua personalità. Non osai dunque disobbedire poiché la situazione, pur andando progressivamente placandosi, era ancora di estremo pericolo. Non avevo piú molto da fare quel giorno, tutto era pronto per la nostra insolita villeggiatura. Avevo lasciato fuori un libro di Maupassant che mi appassionava e mi trasportava, per qualche momento, lontano dal grigio tetro di quei giorni. Proprio come oggi, mi feci un tè, ultimo privilegio di una classe in declino. Aleggiava un insolito silenzio nelle strade antistanti, come se qualcosa di sinistro dovesse stare per accadere. Non ho mai avuto timore di restare sola in casa, ma in quei giorni funesti tutte le oscure paure che possono avvolgere l’animo umano trionfavano nel mio, bastava uno stridore di mobili antichi in assestamento che il mio cuore sobbalzava, una finestra sbattuta da un vento caldo ed io ero percorsa da un brivido di angoscia. La morte di mio padre, le atrocità dell’ultimo periodo di guerra e quell’invasione brutale avevano scosso la mia quiete interiore, avevano tolto il mio coraggio di giovane donna che ignora tutto il dolore che l’esistenza può riservare, nello spazio di poco tempo avevo conosciuto molte delle miserie umane che la maggior parte degli uomini arrivano a comprendere, in circostanze normali, lungo tutta una vita. Era dunque perfettamente logico che fossi terrorizzata anche da un respiro di vento. Cercavo consolazione e rifugio in quel libro che aveva il gusto delle cose oramai perdute per me: di salotti eleganti, di piacevoli conversazioni, di donne fasciate di seta e gentiluomini attraenti con il loro discutere di politica e letteratura, tutto quel leggere mi riportava al centro della nostra bella casa, quando mio padre istrioneggiava con la sua vasta cultura e mia madre illuminava i volti degli invitati con la sua grazia e dolcezza. Qualcuno bussò alla porta, non poteva essere mia madre, poiché era da poco uscita. Mi avvicinai circospetta, pensai di fingere di non essere in casa, poi qualcosa si ruppe, proprio come oggi, la bella tazza di porcellana tedesca in cui stavo bevendo il mio tè, l’avevo mal riposta, sorpresa da quella visita inattesa. Mi accostai alla porta con l’orecchio teso per indovinare chi vi si celasse dietro, udii la voce di due uomini giovani che bisbigliavano in russo. Decisi di non aprire, conoscevo la triste sorte di coloro che avevano dovuto cedere alle pressioni degli invasori. Ma i due uomini non avevano l’intenzione di abbandonare. Udii pronunciare le parole: “Sappiamo che c’è qualcuno, aprite per favore vogliamo soltanto qualcosa da mangiare”. Il tono era pacato e non portava i segni dell’arroganza, ma piuttosto quelli della disperazione. Mi lasciai impietosire da quella lingua di tanti miei amati scrittori e dalla miseria di quella sporca guerra. Aprii uno spiraglio e di fronte a me trovai due giovani dai capelli biondi, dalla mascella squadrata e dalla salda corporatura. Uno doveva avere poco piú di vent’anni, mentre il secondo, colui che aveva parlato, raggiungeva forse a malapena la trentina. Le divise imbrattate e l’aria esausta mi convinsero che anche il nemico ha diritto ad un minimo di soccorso, in fondo eravamo tutti delle vittime, delle pedine impotenti nelle mani di pochi burattinai che governavano il nostro mondo. Chiesi loro cosa volessero, utilizzando l’idioma che avevo imparato nei miei lunghi pomeriggi di studio. Un pezzo di pane e qualcosa di fresco da bere fu la risposta. Aprii la porta che fino ad allora avevo lasciato socchiusa. Li feci entrare nella cucina di servizio, dove oramai poche stoviglie sparse regnavano fra i tanti cartoni ed imballaggi. Non avevo molto da offrire loro, solo pane nero, del lardo ed un poco di quel tè. Mi osservavano minuziosamente mentre tagliavo a fette quel pane scuro con mano incerta, già in parte pentita di essermi lasciata intenerire da due stranieri ancora nemici. Le mie membra ossute sotto quel vestito leggero di tela colorata si intravedevano in trasparenza contro la luce abbacinante di Luglio. Deposi il pane sul tavolo di marmo bianco con un piatto di preziosa porcellana, versai loro il tè in due bicchieri troppo raffinati per l’insolita circostanza. Guardavo quei volti asciutti e scottati da un sole feroce per le loro candide pelli di uomini del nord, occhi di ghiaccio dell’uomo piú adulto scrutavano i miei, bruni e malinconici. Occhi verdi e rassegnati si aprivano sul volto di quel ragazzo poco piú maturo di me. Quest’ultimo non faceva che ringraziare, mentre divorava quel pane quasi raffermo, l’altro scrutava me ed il mobilio, con il desiderio recondito di esplorare quella casa che si annunciava essere stata sontuosa nei suoi momenti migliori. Indovinavo il rancore ed il suo odio per me e tutta la mia gente, leggevo nei suoi sguardi invadenti il disprezzo per chi aveva potuto condurre fino a poco tempo prima una vita agiata. La paura riaffiorava con sottile prepotenza dentro di me, mi faceva salire un brivido di freddo su per la schiena nonostante la calura opprimente. Volevo affrettare la loro dipartita, ma non sapevo quale scusa inventare, temevo che una mia mossa sbagliata, un passo falso avrebbero potuto scatenare il peggio ed avere conseguenze nefaste ed imprevedibili. Mi alzai da tavola. Il giovane seguì il mio esempio, quasi avesse compreso il mio desiderio di essere lasciata nuovamente sola. L’altro indugiava e con fare arrogante toccava ogni oggetto che fosse alla portata delle sue ruvide e possenti mani. “Andiamo” disse in russo il giovane al compagno. “Che fretta hai?” rispose con un sorriso sardonico l’altro. “Ingozzati ancora un po’ di pane, mentre io mi faccio fare una visita guidata per la casa da questa bella signorina magiara” continuava con aria insolente. Capii immediatamente che dei due era quest’ultimo ad impartire gli ordini e che era l’altro a riceverli senza possibilità di opporsi. Ero immobile in piedi di fianco alla credenza, incerta se la tattica migliore fosse quella di resistere o quella di accontentare quel borioso cosacco nella sua curiosità morbosa. I suoi occhi freddi non mi lasciarono molto tempo per indugiare, intuii che contrapporre la mia combattiva personalità alla possenza fisica dello straniero era inutile ed estremamente rischioso. Lasciai la stanza in silenzio, certa che l’uomo mi avrebbe seguito come un cane bastardo. Entrammo nel grande salone. I mobili erano tutti vestiti di candidi lenzuoli come fantasmi addormentati, rimanevano soltanto i quadri appesi in bella mostra a ricordare le glorie del passato della mia famiglia. Alcuni dei preziosi soprammobili erano ancora lì a lasciarsi ammirare. Il russo toccava tutto con il desiderio di appropriarsi di qualcosa senza sapere come fare, poiché ogni suppellettile si dimostrava troppo ingombrate per le sue minute tasche e per la piccola saccoccia che portava sulle spalle. Il mio odio cresceva di pari passo con il suo. Mi sentivo invasa nella mia intimità e quando le sue mani si posarono, con l’intento del ladro, sul piccolo orologio antico, quello stesso che tu hai visto nella mia biblioteca, la mia rabbia esplose in un moto di ribellione. Lo intimai di non toccare nulla. La mia voce risuonava calma e severa, nonostante il sangue pulsasse impetuoso nella vene. “Non osare toccare nulla, ripetei una seconda volta” non curante della sua temibile figura. Sorpreso dal mio coraggio e dalla determinazione delle mie parole, lasciò l’orologio al suo posto. Passammo in un’altra stanza, nella grande biblioteca di mio padre. Vi restammo non troppo a lungo, i libri non sembravano solleticare la sua curiosità. Si diresse poi verso il grande scalone che portava alle camere private. Dissi che quella parte della casa era invisitabile e di nessun interesse poiché si trattava soltanto di stanze da letto e sale da bagno. Ma lo straniero sembrava non udire neppure il suono della mia voce e continuò imperterrito la sua visita, come in un museo. Fui obbligata a seguirlo, non volevo lasciarlo aggirarsi indisturbato fra le mura della mia vita. Entrò prima nella mia stanza. Un grande letto settecentesco era stato il mio giaciglio fin da quando avevo abbandonato la culla. La cassettiera antica dalle importanti maniglie in ottone divideva la sorte di tutti gli altri mobili, elegantemente coperta di un ricamato lenzuolo immacolato. I miei oggetti personali e meno ingombranti giacevano in un baule ermeticamente chiuso che annunciava l’imminente partenza. Stavo per lasciare la stanza quando il nemico forzò la serratura del baule, credendo, a ragione, che vi si trovassero, fra gli altri, dei gioielli. Un impeto ribelle mi fece scagliare la mia esile figura contro quella corpulenta dell’uomo. Urlai di andarsene, mentre con uno sforzo sovrumano chiusi la sua gola fra il braccio e l’avambraccio. In poco meno di un secondo mi ritrovai per terra con il suo corpo addosso. “Cosa credevi di fare eh puttanella di lusso?”, mi bisbigliava nelle orecchie sogghignando. “Pensavi di farmi paura con una mossa a sorpresa? Non lo sai che ho ucciso almeno venti uomini guardandoli in faccia in questa sporca guerra, pensi che mi farebbe tanta differenza uccidere una puttana come te?”. “ A guardarti bene non sei poi così brutta come sembri. Hai dei begli occhi scuri e di questi tempi scoparsi una verginella non è cosa agevole. Vedrai che ti piacerà”. E mentre mi sussurrava io sentivo il suo fiato maleodorante sui miei occhi bagnati di terrore e di rabbia. Con una mano mi teneva la bocca chiusa e con l’altra mi strappava gli indumenti intimi sotto il vestito di tela. Nel breve spazio di quei dolorosi istanti pensai che il mio sogno d’amore stava per essere svilito per sempre dal sesso selvaggio di un barbaro. La mia verginità stava per essere rubata dall’abbraccio avvelenato di una bestia inferocita ed io non sarei mai stata piú la stessa”. Susanne si interrompe, calde lacrime scivolano fra le rughe del suo volto, il pudore ha lasciato il posto ad un dolore antico e mai sopito: umiliare i sogni a vent’anni è cosa che la nostra memoria non sa cancellare. Laura chiude gli occhi in silenzio, anch’essi sono ricolmi di lacrime che per discrezione soffoca. Il racconto riprende placido, come una bella storia di principi e dame. “Dall’ulteriore umiliazione delle botte mi salvò il giovane. Lo percepii sulla porta che sconcertato mi vedeva giacere a terra con il suo compagno sdraiato ed ancora ansimante su di me. “Vuoi favorire anche tu?” gli disse il bastardo. “Alzati ed andiamo, animale” urlò con gli occhi lucidi il ragazzo. Il suo compagno sembrava ancora una volta non ascoltare e con la ferocia che lo contraddistingueva, mi tirava i capelli e mi insultava. Il ragazzo con mano tremante ed occhi fissi estrasse una rivoltella e la puntò dritta alla testa del compagno. “Alzati animale, se non vuoi che ti faccia saltare la testa”. Ebbe del coraggio quel giovane. Uno sconosciuto mi aveva offesa per sempre, ma uno sconosciuto mi aveva salvato forse la vita”. Non ci sono parole per commentare simili perversi accadimenti, Laura non osa rompere il silenzio figlio di quel ricordo di pietra rievocato dalla signora. “Alcune persone hanno le risorse interiori per sopravvivere, certe volte penso che le cose piú terribili cadano addosso a coloro che possano sopportarle. Credo di essere una di quelle persone. Non raccontai a nessuno quell’episodio per molto tempo, neppure a mia madre. Mi costò uno sforzo incommensurabile non gridare il mio dolore, non ribellarmi a quel maledetto destino che mi aveva sottratto mio padre e una parte della mia innocenza con la rapidità e la leggerezza di un battito d’ali. D’improvviso ero cresciuta di dieci, venti, trent’anni. Un’accelerazione inaspettata che non riuscivo a gestire: malgrado negli ultimi anni avessi raggiunto una maggiore consapevolezza della potenziale crudeltà dell’esistere, la guerra era una realtà innegabile, quegli ultimi mesi impressero un marchio a fuoco sulla pelle fragile dell’anima, mi sentivo un vitello che ha appena toccato il ferro incandescente del suo proprietario e per sempre porterà le iniziali di questi sul suo vello, io avevo iscritte le parole “questa è la vita”. Non so come mia madre non si accorse di nulla, forse volle semplicemente non vedere, il suo spirito prostrato non avrebbe retto a tanto. Io avevo anche paura. La sifilide ed altre malattie appestavano la città, i soldati russi erano degli untori consapevoli e spargevano il morbo con sadismo. Io di notte non dormivo pensando che avrei potuto aver contratto la malattia in quell’attimo di inaccettabile violenza. Dopo alcuni giorni, la mia mente decise di non preoccuparsene piú. Il contesto in cui vivevo era diventato così insopportabile, che, pregando Dio, chiedevo la morte implorando perdono. La malattia mi risparmiò e noi partimmo per la nostra casa di campagna, quasi come previsto. Infatti, malgrado le resistenze di mia madre, fummo costrette ad abbandonare tutti i nostri bauli in casa, le comunicazioni erano divenute difficili ed uscire da Budapest era un’avventura che non richiedeva certo inutili bagagli. Partimmo come due fuggiasche alla fine di Luglio, con un treno che non poteva neppure condurci fino a destinazione. Dovemmo percorrere 20 km a piedi in mezzo alla campagna abbandonata, sotto un sole malvagio, che frustava le nostre schiene con raggi d’oro. La nostra antica casa riposava protetta dall’immenso parco con i suoi superbi platani a delimitarne il confine. La parola guerra era come se in quel luogo non fosse mai stata pronunciata. Un’oasi felice si apriva ai nostri occhi, dopo tanto struggimento e terrore. Miracolosamente risparmiata alle razzie, la nostra dimora si ergeva con i suoi possenti muri in pietra e le sue immense finestre. Trascorremmo in quel luogo un anno intero, protette dalla volta del cielo e da un mare di erba verde. Con l’aiuto dei nostri vecchi contadini, sopravvissuti anch’essi, riuscimmo a nutrirci di un intermezzo di bucolica quiete tra gli orrori del recente passato e le privazioni ed i sacrifici di quello che sarebbe stato il nostro ancora ignoto futuro”. Ancora una volta il tempo è volato sulle ali di un racconto. Sono le otto di una piovosa Domenica inglese e Laura si congeda a malincuore. Ad ogni nuova immaginaria pagina di questo libro, il suo candido stupore si accresce di pari passo con l’ammirazione per l’anziana signora. Un alone di impalpabile sacralità avvolge la narrazione che si srotola leggera nonostante la drammaticità del suo contenuto. Riflessioni plumbee accompagnano le serate di Laura dopo ogni rinnovata tazza di tè in compagnia di Susanne. Come certe persone possano sopravvivere a tanto rimane un mistero per lei che incontra bruciante difficoltà a condurre la sua piccola vita. La signora è riuscita a superarne i muri impietosi, si domanda cosa lei riuscirà a superare e quale fato sia minuziosamente disegnato davanti a lei senza che possa conoscerlo. Guarda avanti, ma non vede nulla: una monotona ed insipida solitaria quiete che neanche la rumorosa metropoli è riuscita ancora a smuovere."
Estratto Capitolo XX
"Il maestro l’attende sulla porta della villa con il viso serio e pallido. “Come stai?” le chiede mentre appoggia la sua guancia ruvida a quella di Laura in segno di affetto. “Tutto ok maestro e lei?” risponde l’alunna mentre entra nella stanza del pittore. “Non c’è male” è la replica consueta di lui. E’ quasi un anno che le lezioni avvengono con puntuale regolarità una volta alla settimana e questo signore severo e la sua allieva hanno imparato ad esplorare le reciproche menti e conoscersi con discrezione. La stanza è grande con un tappeto di fibre naturali che ne nasconde il pavimento; un disordine voluto regna, dove cavalletti, tele e colori sono in compagnia di mobili antichi di campagna sui quali riposano a caso una vecchia pinza, un cacciavite dimenticato, un ombrello rotto e soprammobili bizzarri per forma e materiale. Il maestro indossa una canottiera azzurra ed un paio di pantaloni larghi e colorati: non è uomo di apparenza, ma di sostanza. Ha avuto una vita complessa ed intricata come certe vie che si incrociano strette ed oscure nei centri storici di qualche città di mare e frammenti di questa si sono svelati in quelle ore di lezione già trascorse. Parla spesso di quanto il suo tempo sia corso in fretta, ma il rimpianto non canta nella musica delle sue parole, come se il vissuto fosse stato appagante nonostante i sacrifici, le difficoltà, le paure. Nomina sovente anche la morte, ma con tranquillità, spogliandola dal velo sacro del mistero, come fosse un’altra tappa di questo pellegrinaggio terreno, un ponte da attraversare senza inquietudine per ritrovarsi sull’altra sponda dello stesso fiume. La sua filosofia religiosa non si conforma a nulla di già codificato da altri: non è cattolico, né protestante, non musulmano, né buddista, non è nulla di tutto questo ed è tutto allo stesso tempo, il suo credo è un mare aperto dove tutte le filosofie umane confluiscono e prevalgono a turno, lasciandogli una serenità solida. “Bisogna approfittare al massimo dei piaceri poiché sono meno numerosi e frequenti dei dolori che possono arrivarti” e mentre lo dice ha un tono solenne ed un espressione cupa sul volto, come di chi abbia sperimentato piú sofferenza che gioia nei suoi anni, ma queste constatazioni amare non lo rendono comunque una persona spenta o negativa, un misantropo senza speranza, poiché sono soltanto un aspetto della sua personalità composita in cui trova posto un senso spiccato dell’ironia proprio di chi ha un’intelligenza allenata ed osservatrice. Laura ascolta volentieri i suoi racconti di guerra, la sua giovinezza in Italia quando senza un soldo affittava a Firenze un appartamento dove non c’era neppure il gas e s’incanta ai suoi viaggi avventurosi ai quattro angoli del mondo. Lei racconta i suoi pensieri e, talvolta, i ricordi dei suoi amori perduti colorandoli degli aneddoti piú divertenti, sapendo che il maestro esordirà con commenti puntuali e sagaci. Una volta gli aveva riferito di un suo ex fidanzato che, vedendosi offrire un maglione in cashmere per Natale, si era mostrato senza alcuna vergogna deluso ed aveva confessato che in realtà si aspettava un camicia di Hermès. “Sai, cosa dovevi dirgli: caro, scusa, mi sono sbagliata, il golf di cashmere me lo riprendo ed al suo posto ti do un bel calcio in culo”, questo era stato il commento del maestro e Laura ne aveva riso di tutto cuore. Rispetto degli altri, ma rispetto prima di tutto per se stessi era il concetto di fondo che riposava dietro tutti i discorsi e lei apprezzava quel signore e condivideva molti dei suoi ragionamenti allo stesso modo in cui apprezzava e condivideva i pensieri di Susanne; era un po’ come se quei due personaggi si assomigliassero nei loro tratti essenziali e per questo lei li amava come parte di una sua famiglia allargata ed ideale."
Estratto da "Carmen del Adagio"
"Mi risveglio accaldata all’ora del pranzo. Mi accorgo di non essere più sola. La coppia che abita di fronte alla mia porta si è animata. Sono spagnoli e gentili. Lui ha forse la mia età, un viso magro con una barba lunga che lo fa assomigliare ad un ebreo ortodosso ed intransigente, lei è più giovane forse, capelli corti e castani intorno ad un viso dai lineamenti regolari e mediterranei. Hanno un cane bianco macchiato di nero e dalle origini indefinite. Lo temo, come tutti i cani, è brutto e tozzo, ma i suoi padroni mi assicurano che è mite, malgrado l’apparenza poco invitante. “Tengo miedo de los perros” preciso io nel mio spagnolo stentato, ma comprensibile. Juan e Rachele sorridono ed in inglese spiego che questa è la prima frase di senso compiuto che ho voluto imparare in spagnolo, visto che il bianco quartiere conta una popolazione più numerosa di cani che di cristiani. Una ragazza bionda ed americana, uno spagnolo dalla faccia paffuta, una universitaria torinese che è assente, ma che presto tornerà, un altro giovane ed aitante spagnolo, sono questi gli abitanti del “Carmen del Adagio” che hanno all’incirca la mia età, insieme ai miei vicini di pianerottolo. Non è tutto qui, l’ho intravisto il primo giorno, mentre ero ancora affaccendata ad ambientarmi. “Hola!” mi ha detto da lontano gettando un’occhiata furtiva, ma sicura, alle mie gambe. Parla spagnolo come un andaluso, mangiandosi le s, ma è inglese. Ha una statura media ed un corpo asciutto e ben proporzionato, vive con un costume da surf addosso che gli fascia i glutei, un paio di sandali di cuoio ed una collana dello stesso materiale con appesi alcuni ciondoli propiziatori. Porta i capelli appena sopra alle spalle, sono castani, arsi e sbiaditi dal sole, un viso scarno, troppo scarno ed abbronzato con due piccoli occhi verdi e tratti fini. Linee incise si disegnano come su una scultura sulla pelle del suo volto, confessano notti insonni e giornate frenetiche con appena il tempo di respirare. Indovino la sua età: cinquant’anni precisi ed intensi. E’ sua la chitarra che mi culla la sera.Vado e vengo dal “Carmen”, tra una visita a qualche chiesa e le mie lezioni di spagnolo, cammino nelle strette calli con un vago timore di essere assalita da uno dei tanti cani randagi e saluto le anziane signore sedute a prendere il fresco nelle piccole piazze, come fossi una residente abituale: una straniera che ha deciso di passare un pezzo della sua vita in quel bianco quartiere che profuma di “pueblo” d’altri tempi. Mi aggiro senza difficoltà tra le vie e le viuzze stupita del mio neonato senso dell’orientamento. Una strana sensazione di familiarità mi abita, come se in quel luogo fossi stata prima o mi attendesse da sempre. Apro il pesante portone, salgo e scendo la scala che conduce al mio ristretto appartamento, una presenza silenziosa mi osserva, scruta le mie mosse, indovina le mie forme sotto i miei esigui abiti. La sua porta è di fronte a quella d’ingresso, al fondo del patio. E’ sempre aperta, ma protetta da occhi indiscreti da una cortina verde di rete. Sono seduta intorno alla piscina con il mio nuovo ed impegnativo libro di verbi spagnoli, lui sale le scale con una coscia di pollo in mano: “My name is Mike, but they call me Jingle”, mi bacia su una guancia in segno di presentazione informale e se ne va per continuare quello che stava facendo."

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