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Ogni volta unica, la fine del mondo

Il gesto di scrivere è un gesto solitario.
La scrittura è l’espressione di questa solitudine?
Si può dare scrittura senza solitudine, oppure, ancora, solitudine senza scrittura?
La solitudine ha dei gradi? Insomma ci sono più zone e diversi livelli di solitudine, così come ci sono piano d’ombra e piani di luce?
E in questo caso, è lecito sostenere che ci sono solitudini consacrate alla notte e altre consacrate al giorno?
Infine, è possibile cogliere forme diverse di solitudine? Ad esempio: solitudine fulgida, piena, come quella del sole, oppure solitudine uniforme, tenebrosa, come quella delle pietre tombali, solitudine del dì di festa e solitudine delle ore luttuose?
Eppure la solitudine non può essere detta senza che, di colpo, cessi di esistere. Non può essere scritta se non a una distanza di protezione dall’occhio che poi la leggerà. Si può dunque affermare che il dire è per il testo quel che la parola orale è per la parola scritta: fine di una solitudine tutta assunta su di sé, per la parola orale; preludio alla solitudine di una avventura, per la parola scritta.
Chi parla a voce alta non è mai solo.
Chi scrive raggiunge, con la mediazione del vocabolo, la sponda della propria solitudine.
Nell’immensità d’una distesa di sabbia chi oserebbe ricorrere alla parola? Il deserto risponde soltanto al grido, all’ultimo grido già avvolto dal silenzio, dal quale sgorgherà il segno: poiché si scrive, sempre, lungo i confini indeterminati dell’essere.
Prender coscienza di questo limite vuol dire, nello stesso tempo, riconoscere che punto d’avvio dello scritto è la linea irregolare che segna la demarcazione della nostra solitudine. Così, sia la solitudine che lo scritto hanno frontiere fluttuanti che noi andiamo costeggiando, la penna nella mano: frontiere che divengono riconoscibili per mezzo di noi e grazie a noi. Ogni libro ha i suoi antri di solitudine.
Sette cieli si schiudono dal cielo. E il vuoto ha anch’esso i suoi livelli. Così la solitudine: vuoto del cielo e della terra, vuoto dell’uomo, il quale in esso s’affanna e in esso respira. Legata com’è ad ogni forma d’origine, la solitudine ha il potere straordinario di rompere il tempo, di liberare l’unitaria primigenia: insomma di fare, in qualche modo, del multiplo che non si può determinare l’uno che non si può numerare.
Sicché, in queste condizioni, cercare di scrivere vuol dire rifar daccapo, sul margine dello scritto, ma in senso inverso, il percorso seguito dal pensiero; ricondurre il pensiero all’oggetto stesso del suo pensare e lo scritto al vocabolo che già lo conteneva in sé. Vuol dire uscire dalla propria solitudine per sposare, pur ignorando l’incipit, la solitudine iniziale del libro, quella solitudine cui proprio il librò darà un nome. Poiché solo sulle rovine d’un libro dal quale si è distolto lo sguardo, sulla spaventosa solitudine delle sue macerie, si costruisce un libro.
Lo scrittore non abbandona il libro.
Cresce e sprofonda ai suoi lati. Il primo tempo dello scrivere consiste nel raccogliere le pietre del libro crollato per edificare con esse un’opera nuova: la stessa di prima, non c’è dubbio di questo edificio lo scrittore è instancabile capomastro e, insieme, l’architetto e il muratore; e per questo è più attento al movimento interno, naturale, che presiede al suo compimento di quanto non lo sia al procedere stesso della costruzione. Ma soprattutto è attento alla scrittura d’una doppia solitudine, quella del vocabolo e quella del libro, solitudine che si apre via via verso una progressiva leggibilità.
D’altra parte in nessun luogo, come in questo rettangolo di carta fine riservata all’indicibile, parole e dimora sono così saldamente legate tra loro, ma anche, nel contempo – ecco il paradosso – , così distanti. Poiché alla solitudine nessuna alleanza è permessa, nessuna speranza di liberazione collettiva.
La solitudine si costruisce da sola. Da sola, con la complicità della scrittura, promuove la lettura delle superbe architetture delle sue epoche di splendore, ma anche la lettura delle sue vaste e profonde ferite, nel tempo in cui l’opera ch’essa ha contribuito a edificare va in polvere, nel tempo in cui il libro si frammenta nell’infinita frantumazione delle sue parole. A questa solitudine lo scrittore si sottomette, concedendo talvolta più di quanto egli possa poi mantenere. Eppure è impossibile sottrarsi agli impegni presi nei suoi confronti. Perché poi? La solitudine non è forse per l’uomo una scelta ben consapevole? Che cosa sono allora queste catene che egli non ha fabbricato? C’è forse una solitudine che egli, reso impotente, può solo subire?
L’esigenza di questa solitudine dalla quale lo scrittore non è in grado di liberarsi è esattamente quella che la parola che così la nomina le ha imposto: solitudine dalle profondità della solitudine. Come se ci fosse una solitudine più sola, rinserrata nel cuore stesso della solitudine, in quel luogo dove la parola si modella nell’immagine che lei stessa ha catturato, come accade al bambino nel ventre materno.
Da questo momento in poi tutto è elaborato ormai secondo un piano premeditato, poiché il progetto del libro è anzitutto un progetto temerario del vocabolo. Non si può scrivere il libro senza prima aver partecipato indirettamente a questo progetto. Il quale forse è soltanto l’intuizione che abbiamo del libro e a partire dalla quale il libro si scrive.
Solitudine d’una parola, dunque. Solitudine della parola prima della parola, della notte prima della notte: per questa soltanto, come astro immerso in essa, brilla ormai il vocabolo.
Ma, si obietterà, come si può andare verso la parola a partire dal libro? Come la luce va verso il sole, risponderò. Libro non è forse una parola? Alla parola «Libro» sempre si ritorna. Lo spazio del libro è lo spazio interiore della parola che lo designa. Scrivere un libro, allora, è riempire questo spazio nascosto, scrivere nel cuore della parola.
Ma questa parola che raccoglie tutte le parole della lingua – come l’astro del mattino tutta la luce del mondo – è, nella lingua, il luogo della sua solitudine, il luogo in cui essa si confronta con il niente, in cui essa più non significa, e nient’altro designa che il Nulla.
«Non puoi leggere quel che vedi, ma puoi vivere quel che leggi» diceva.
fra 'l lento dondolio di tavolo
al torcitoio macchiamo le labbra
della spadellata a cime di rapa
qualche giallo in provincia di pistoia
fuga in salita nel verde di case
la chiesetta di fronte il bagno è chiusa
piccolo di rubinetto di fiaba
fango sulle suole e tutt'a lei intorno
alberi in grossi vasi di limoni
tu passeggi silente ma l'obliquo
dello sguardo tocca a lei le pieghe
rigida e più sospesa che euridice
occhi nuotanti nell'abisso d'istante
come fumo a disperdersi nell'aria
aiuola addomesticata a figura
sottovoce prima del tamburello
dita battono colpi femminili
d'una lieve cadenza millenaria
svanenti miti gl'occhi profilano
scoiattoli e snelle ninfe elastiche
in grana dura ulivi tra cipressi
sciolti scivolano sbucciati a notte
tremanti scarpe ballerine e stelle
muovendosi su tracce che conosco
senza mai aver visto questo posto
sono danze insinuanti nel più lungo
giorno che attende l'ombra della sera
tra blu rocce fra volterra e campana
raccolgo piccoli e piatti sassetti
costeggiando il basso che grido mirto
appare e dispare nel verde e lampi
mi passeggia il viso di te bambina
più scuro al lento e straziante languire
di quest'avanzato incanto del giorno.

I am not myself. I am the one
Walking by my side, without me seeing him,
The one I often visit and the one I often forget.
The one, who remains silent when I speak,
Who gently forgives, when I hate, who wanders
Where I’m not, who will stay upright, when I die.
Nel mare sterminato delle città reali e di quelle possibili, appare sempre più difficile edificare la "città perfetta"; la città che abitiamo non può essere altro che un inferno quotidiano nel quale orientarsi seguende due opposti comportamenti. Il primo riesce facile ai più: accettare l'inferno e non riuscire più a vederlo, finendo per farne parte. Il secondo è rischioso, richiede attenzione e passione continue: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e quando lo si è trovato, farlo respirare e crescere, dargli spazio.
CAPITOLO I: frammenti
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anni con le parole, il battente scarto d’illusione che, come l’inchiostro, può variare i suoi colori. le tradiamo e rinneghiamo sempre un po’; e continuiamo a pensarci: ci seguono, insomma, belle o brutte ch’esse siano. a volte traballano; altre volano e, comunque, s’insinuano prepotentemente anche nella linea storta di una vita. spesso sono quelle degli altri e, del resto, è sempre un’altra a disegnare le tue vocali e consonanti più belle, movimenti d’altalena, di un innamorato potresti considerarle; qualcosa in bilico sul cornicione che, anche se cadi, non ti fa male. non è sempre così però. una ferita infine, che non possiamo-vogliamo più cicatrizzare: e la mano accarezza il foglio, perché non è più abituata ad accarezzare la vita.
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CAPITOLO II
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A son fueis i pinseirs
da scrivaju tal vert
bel che la di a cjanta in Valdifrina
e a si colmin i voi
cu li aghi dal Tàl
ch'ai discorin ai pras
e ai ridin a li cjasi
lissivadi

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il fondo dell'acqua è disseminato di stelle
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