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Giuseppe Garibaldi

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Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807. I genitori Domenico e Rosa Raimondi avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, di medico o di prete, ma fin da bambino mostrò di preferire di gran lunga la caccia e il mare agli studi. Ai primi imbarchi sulla nave del padre seguirono molti altri viaggi, e dal 1825 fece praticamente sempre il marinaio. Quel periodo di viaggi contribuirono in modo decisivo a fargli acquisire una mentalità decisamente cosmopolita innestandosi su quello spirito libertario che era uno dei tratti essenziali della sua personalità. Inizia infatti ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza e comincia a maturare in lui il credo che lo accompagnerà per tutta la vita: la fratellanza universale, l’odio verso ogni forma di dispotismo e di oscurantismo clericale, che col tempo assunsero i connotati di un socialismo utopistico e radicale. L'incontro tra Garibaldi e Mazzini avvenne a Londra nel 1833. Egli si iscrisse alla Giovine Italia, un'associazione politica segreta il cui scopo era di trasformare l'Italia in una repubblica democratica unita. Sospinto dall'impegno politico e soprattutto sociale Garibaldi assunse il nome di battaglia di "Cleombroto" e iniziò a cercare adesioni alla causa in previsione di un'insurrezione popolare che si sarebbe dovuta tenere in Piemonte. Fin dall'inizio dimostrò di saper agire da rivoluzionario: si espose pericolosamente (a differenza di Mazzini, che era sempre e rigorosamente in esilio protetto)e la polizia ben presto lo additò come uno dei capi della cospirazione e fu condannato alla pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della Patria e dello Stato. Garibaldi divenne così un "bandito". Tra il dicembre 1835 ed il 1848 Garibaldi trascorse un lungo esilio in Sud America. Nella parte meridionale dell’immenso impero brasiliano, la provincia del Rio Grande, si era andato formando un forte movimento separatista, che aveva proclamato l’indipendenza e dato vita ad un nuovo Stato: immediata fu la reazione del governo centrale e, pur non avendo particolari ragioni per schierarsi coi separatisti, quando nel 1837 il presidente del nuovo Stato, Bento Gonçales, gli offrì il comando di una flotta Garibaldi accettò con entusiasmo: in realtà si trattava di alcuni legni equipaggiati alla meglio, ma l’importante era potersi mettere al servizio di una causa che parlava di "libertà". Furono tre anni assai avventurosi: Garibaldi si dimostrò un abilissimo corsaro, e la sua fama si diffuse rapidamente, alimentata anche dal fatto che egli effettivamente non agì mai per il profitto personale ma mise sempre al primo posto la difesa dei deboli. In questo periodo egli incontrò Aninhas Ribeiro da Silva, Anita. All'epoca la donna era sposata, ma abbandonò suo marito e si consacrò a Garibaldi. Lo fece da donna libera, con un’audacia ed un’energia ben lontane dal carattere di una donna europea dell’epoca, e con un coraggio virile (così lo definisce Garibaldi) che la vide combattere come "un fulmine di guerra": e si può senz’altro dire che Garibaldi non solo amò la donna fiera e sensuale, la madre dei suoi tre primi figli, ma ammirò senza riserve la compagna di lotta che cavalcava come un gaucho, spronava gli uomini nei momenti più duri e sapeva sparare con la pistola e… col cannone. Il modo in cui si sviluppò il conflitto, trasformatosi da lotta per l’indipendenza in guerra civile tra fazioni entrambe interessate soprattutto al potere, fu una lezione durissima ma salutare per Garibaldi: da un lato si lasciò definitivamente dietro le spalle certe ingenuità in merito a coloro che parlano di libertà, dall’altro imparò (e ne fece forse la prima regola del condottiero) quanto fosse essenziale per un soldato avere l’appoggio popolare e, soprattutto, essere fortemente convinto della causa per cui andava a combattere. Dopo una breve parentesi di tranquilla vita borghese Garibaldi si trovò nuovamente coinvolto nel turbolento clima politico locale; in Uruguay, da poco resosi indipendente dall'Argentina, il primo presidente del nuovo Stato, Rivera, non aveva accettato di buon grado il termine del proprio mandato e aveva deposto il suo successore, Oribe: anche in questo caso non si può ragionevolmente distinguere tra un raggruppamento schierato dalla parte del privilegio e un altro su posizioni liberali, trattandosi sostanzialmente di una lotta per il potere tra gruppi che esprimevano i propri interessi particolaristici, anche se in effetti Oribe non si fece scrupolo di chiedere l’appoggio di coloro che erano stati i padroni stranieri dell’Uruguay, nella fattispecie il generale Rosas, dittatore dell’Argentina. Fu certamente questo aspetto che convinse Garibaldi, stabilitosi a Montevideo, a schierarsi dalla parte di Rivera e a metà del 1842 assunse il comando di una piccola flotta con l’incarico di portare aiuto ai ribelli che nella provincia di Corrientes (sul versante orientale dell’Argentina, a nordovest dell’Uruguay) erano insorti contro il governo di Buenos Aires: un’impresa suicida, perché si trattava di risalire per oltre cinquecento miglia il fiume Paranà, controllato dalla flotta argentina e in territorio nemico, e infatti, malgrado numerosi episodi in cui Garibaldi diede prova del proprio talento tattico, la sua flottiglia fu annientata e a fine estate egli riprese la strada del ritorno. Le forze di Rivera sono ripetutamente battute e il conflitto ormai è ridotto alla difesa di Montevideo: un assedio che durò dalla metà del 1843 all’autunno del 1851 e che assunse i tratti della leggenda, tanto che Alexandre Dumas padre scrisse enfaticamente di una tragedia paragonabile a quella di Troia. Garibaldi ottenne anche l’incarico di formare e comandare un corpo di volontari, la cosiddetta Legione italiana, e proprio in quel periodo comparvero le celebri camicie rosse: era notoriamente il colore della rivoluzione, ma qualcuno sostiene che si trattò di un caso, dovuto al fatto che Garibaldi intercettò un mercantile che trasportava una partita di stoffa per la ditta incaricata di confezionare i grembiuli dei macellai di Buenos Aires, e quindi ne approfittò per dare una qualche uniforme ai propri uomini. Alle azioni di terra Garibaldi applicò in un certo modo la tattica della guerra corsara, sviluppando con perizia e fantasia tecniche di guerriglia che lo resero giustamente pericoloso agli occhi dei generali avversari, argentini o austriaci che fossero, avvezzi agli schemi tradizionali. Ma per Garibaldi fu una fase significativa anche sul piano strettamente politico: più ancora che durante il conflitto del Rio Grande egli sperimentò direttamente il principio in base al quale guerra e politica non sono mai disgiunte, ovvero, per parafrasare Ambrose Bierce, la guerra è un periodo di imbrogli e di combattimenti fra due periodi di soli imbrogli; non solo i giochi diplomatici fra le grandi potenze condizionavano lo svolgersi degli avvenimenti, ma le lotte tra fazioni si insinuavano prepotentemente all’interno dello stesso schieramento indipendentista, con colpi di stato (lo stesso Rivera fu prima esautorato e poi rimesso al potere), intrighi, corruzione. Un quadro piuttosto sordido, a cui Garibaldi non si adeguò che in minima parte: imparò certamente quanto talvolta siano necessari gli artifici della politica - il compromesso, le alleanze, l’astuzia - ma sviluppò un’avversione sempre più acuta verso i politicanti senza principi e le diatribe prive di altro scopo se non quello strettamente retorico; in altri termini, Garibaldi divenne del tutto insofferente rispetto non solo ai discorsi inconcludenti ma anche al dibattito, necessariamente faticoso e complesso, che si svilupperà nell’ambito del movimento democratico, disdegnando, ad esempio, lo scontro teorico fra le varie scuole di pensiero (pensiamo alle radicali differenze di impostazione tra Bakunin, Marx, Mazzini) e tendendo ad una eccessiva semplificazione dei termini dello scontro politico con le monarchie assolutiste o le borghesie moderate: troppo spesso per lui tutto si riduceva alla risolutiva essenzialità di un confronto militare, con due forze apertamente contrapposte. A metà ottocento, tuttavia, le società europee se da un lato mantenevano una struttura relativamente semplice nella composizione delle classi, nei processi produttivi, negli assetti istituzionali, dall’altro presentavano già tutti gli elementi di complessità che caratterizzano un mondo in profonda e irreversibile mutazione: la tecnologia subisce un’accelerazione formidabile, i mercati si espandono con prospettive del tutto nuove, le tendenze politiche si diversificano enormemente a seconda del grado di sviluppo di ciascun paese, e quindi le variabili che pesano sul divenire della storia diventano sempre più numerose e sofisticate. Pensiamo soltanto, molto schematicamente, al quadro delle forze motrici fondamentali nell’ambito del Risorgimento italiano delineato da Gramsci: la borghesia industriale del settentrione, i latifondisti del mezzogiorno (con le peculiarità della Sicilia e della Sardegna), gli agrari del centro-nord. È dall’interazione, contraddittoria e confusa, fra questi gruppi, e le loro rappresentanze politiche, che scaturiscono o, viceversa, si bloccano le possibili soluzioni: che esito, infatti, avrebbe avuto l’impresa dei Mille se il Regno delle Due Sicilie non fosse stato intrinsecamente debole e se al suo interno non avessero agito tenacemente i cavouriani? Questa complessità sembra sfuggire a Garibaldi, che, ad esempio, tende a definire un po’ troppo semplicisticamente il proprio conflitto con Torino. "Cavour vuole un governo costituzionale di tipo francese, con un esercito stanziale che potrà essere impiegato contro il popolo. Garibaldi vuole un governo all’inglese, senza esercito stanziale, ma con la nazione armata. Tutto qui il contrasto Cavour - Garibaldi? Si può vedere la scarsezza di capacità politica del Garibaldi e la non sistematicità delle sue opinioni."Certo, lo spettacolo che danno di sé i politici uruguayani ed argentini, ed i diplomatici europei, è assolutamente disdicevole, ma l’insegnamento che ne trae Garibaldi pare davvero troppo sbrigativo. Fatto sta che dal punto di vista strettamente pratico il futuro di Garibaldi in America è ormai segnato: con tutta la stima guadagnatasi sia come comandante militare sia come amministratore pubblico (proverbiale l’onestà assoluta con cui egli gestì l’organizzazione dei volontari), le forze che agiscono potentemente sul destino di Montevideo vanno ben al di là della sua possibilità d’intervento, e con tutto il rimpianto per dover abbandonare quell’epico teatro di lotta, egli si decide a tornare in Italia e il 15 aprile 1848 s’imbarca sulla Speranza con una sessantina di compagni.Garibaldi era per tanti aspetti ingenuo, ma non era uno sciocco: l’entusiasmo con cui i compatrioti lo accolsero a Nizza e a Genova non gli fece dimenticare che l’indipendenza nazionale era strettamente legata all’iniziativa del regno di Sardegna e quindi non solo attenuò, almeno pubblicamente, i propri toni repubblicani, ma si mise esplicitamente a disposizione del re: eppure Carlo Alberto non era certo quel campione dell’indipendenza che cercò di fare credere, e la sua ambizione era più che altro "ingrandire il suo regnucolo piemontese alle spese di Milano e di Venezia […] e prevenire o controllare qualsiasi esplosione repubblicana nel resto dell’Italia settentrionale." Il re rifiutò l’aiuto di quel pirata sovversivo e a tale decisione contribuì molto l’ostilità nettissima delle gerarchie militari piemontesi: generali formatisi secondo i canoni accademici, praticamente senza alcuna esperienza di guerra guerreggiata, inizialmente infastiditi da un Garibaldi che ritenevano più che altro un ciarlatano ma in seguito parossisticamente gelosi di un uomo che con tutta evidenza era uno stratega nato; e questo ostracismo dell’establishment militare giocò poi un ruolo decisivo nell’emarginazione sistematica che Garibaldi dovette subire. Allora andò a Milano, dove venne nuovamente accolto dall’entusiasmo popolare e gli fu affidato il comando, col grado di generale, di un piccolo contingente di volontari: finalmente poteva combattere per il proprio paese, ma le grandi speranze durarono pochi giorni, finché cioè l’esercito piemontese non venne sconfitto a Custoza; Carlo Alberto gli ordinò di smobilitare, ma Garibaldi non volle saperne e continuò una sorta di guerra privata contro l’Austria: la mancanza di rifornimenti lo costringeva a rifornirsi requisendo il necessario, e ciò provocò un diffuso risentimento fra la popolazione. Anche per questo Garibaldi rimproverò sempre ai contadini italiani la scarsa propensione ad impegnarsi nella lotta per la libertà, in ciò confermando la propria sostanziale incapacità di fare un’analisi accurata della situazione concreta, perlomeno dal punto di vista sociale e culturale, in cui si trovava l’Italia. Militarmente Garibaldi compì i soliti prodigi: con pochi uomini, usando i metodi della guerriglia, tenne in scacco per due settimane uno dei migliori eserciti del mondo, finché non fu costretto a sciogliere il proprio contingente, a dire il vero ormai ridottosi a poche decine di persone, e a rifugiarsi in Svizzera.Tornato a Nizza, nell’ottobre fu eletto deputato al Parlamento di Torino, ma, come ebbe modo di dire più volte, il miglior modo di rappresentare il popolo era di offrirgli una spada, e così organizzò una spedizione armata per combattere il re di Napoli; l’estemporaneità di tale decisione assume quasi il carattere di un "capriccio" se si osserva il successivo percorso. Interrompe il viaggio per mare verso il sud e si ferma in Toscana, dove nel frattempo si era formato un governo repubblicano, e si adopera per far partire da Firenze una sollevazione di tutta la penisola contro lo straniero: in effetti sarebbe diventata una sorta di ossessione quella di immaginarsi alla testa di un esercito popolare che percorreva ogni strada d’Italia suscitando la rivolta e cacciando preti e stranieri, e, forse, sarebbe anche riuscito nell’impresa. Comunque, anche grazie all’appoggio inesistente delle autorità fiorentine, il risultato fu quello di mettere insieme poche centinaia di uomini, e con essi partì alla volta di Venezia, insorta nel marzo. Il 15 novembre venne assassinato il Ministro degli Interni dello Stato pontificio, Pellegrino Rossi, l’uomo forte del regime, il Papa fuggì improvvisamente e a Roma fu proclamata la repubblica: Garibaldi fece dietrofront e mosse risolutamente verso la città eterna. Probabilmente non sperava che la Repubblica gli offrisse il comando supremo delle forze armate, ma nemmeno si aspettava di essere relegato nelle campagne, ancorché col grado di generale, con un piccolo contingente: Garibaldi mordeva il freno, consapevole che la reazione francese non si sarebbe fatta attendere, soprattutto dopo che il nuovo tentativo antiaustriaco del Piemonte si era miseramente concluso con la disfatta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto. Fedele alla propria abitudine di non aspettare mai l’iniziativa del nemico, ma di incalzarlo anche quando i rapporti di forza non erano favorevoli, magari puntando sull’effetto sorpresa, Garibaldi voleva dirigere decisamente a sud, verso Napoli, ma Mazzini, capo del triumvirato romano, decise di concentrare tutte le forze nella difesa di Roma: l’irruenza di Garibaldi non era quasi mai temerarietà, perché l’azione improvvisa aveva in genere buone probabilità di riuscita rispetto ad eserciti nemici lenti e comandati da generali troppo legati agli schemi della guerra campale. L’idea di Garibaldi era quella di approfittare del fatto che i francesi avevano ancora un contingente limitato e di scompaginare queste forze. Nel frattempo gli oppositori della Repubblica romana si erano riorganizzati: francesi, austriaci, spagnoli e napoletani mettevano in campo una potenza di fuoco a cui non era possibile resistere, ed ecco che ancora una volta Garibaldi propone una soluzione poco ortodossa; dislocare buona parte delle forze repubblicane nelle campagne laziali, in piccoli gruppi in grado di muoversi rapidamente, di sorprendere il nemico, di disimpegnarsi rispetto agli scontri frontali: sì, nuovamente la guerriglia poteva avere l’effetto se non di rovesciare completamente la situazione perlomeno di logorare le truppe avversarie e di guadagnare tempo rispetto alla formazione di eventuali altri contingenti di volontari. Qui l’atteggiamento contraddittorio di Garibaldi è clamoroso: di fronte alla litigiosità dei politici e ad una certa inconcludenza dei regimi parlamentari, egli sosterrà sempre che le situazioni di emergenza vanno affrontate affidando i pieni poteri ad un’unica persona, consentendo quindi al dittatore di decidere in fretta e unicamente dal punto di vista del bene comune; ebbene, a Roma la situazione era di fatto questa, dato che nel triumvirato era sostanzialmente Mazzini il perno delle decisioni, ciò non di meno Garibaldi dimostrò assai poca disciplina nei confronti degli ordini ricevuti: con tutta probabilità sotto il profilo tattico egli aveva perfettamente ragione, ma, per l’appunto, non si può ragionevolmente sostenere la centralità della catena di comando e poi, al lato pratico, metterla in discussione. Si può addirittura ipotizzare che in realtà, pensando al ruolo dittatoriale, Garibaldi guardava soprattutto a se stesso, ed il sospetto è tanto più giustificato se solo si pensa al reale disinteresse personale con cui Garibaldi ha sempre agito. Ed è anche da questi aspri contrasti che fra Mazzini e Garibaldi si delinea un dissidio che non si sopirà mai, e anzi si andrà accentuando negli anni, a tutto discapito di una linea unitaria e politicamente forte dello schieramento democratico. In ogni caso prevalse la decisione di Mazzini e la Repubblica si trovò a subire un assedio terribile. "Mazzini sapeva ch’era finita, ma voleva che finisse bene, e per finire bene Garibaldi era l’uomo che ci voleva". Se, cioè, Garibaldi avesse diretto la difesa di Roma con la perizia e il carisma che egli solo possedeva, quella sconfitta sarebbe stata una vittoria simbolicamente più efficace di tanti effimeri successi. E la resistenza guidata da Garibaldi fu innanzitutto una straordinaria prova di forza morale di fronte al futuro imperatore dei francesi il quale sosteneva sprezzante che "gli italiani non sanno battersi": e invece "sulle mura di Roma a quelle entusiastiche schiere rosse non resta oramai che combattere per la gloria delle armi. Tutto è ridotto a informi mucchi di macerie, i difensori fanno miracoli, ufficiali e soldati vanno a gara nell’adempimento del loro dovere, pare che ognuno voglia, in quei giorni estremi, illustrare colle proprie azioni la gloriosa caduta di Roma." Parole retoriche, forse, ma talvolta non ve ne sono altre possibili per raccontare la storia.La Repubblica è finita, il 30 giugno 1849 l’Assemblea si riunisce per decidere che fare, e Mazzini espone lucidamente le alternative: arrendersi, resistere fino al massacro, evacuare le truppe nella prospettiva di proseguire la lotta; Garibaldi si presenta in Campidoglio lacero, ferito, quasi che davvero pensasse a come poi lo avrebbero ritratto le stampe popolari, ma il momento era totalmente tragico, non c’era tempo per l’enfasi: appoggia Mazzini nella proposta di evacuazione, è solidale con lui quando rassegna le dimissioni perché l’Assemblea ha scelto invece di capitolare, e in piazza S. Pietro raduna i suoi uomini ai quali offre "fame, sete, marce forzate, battaglie e morte". In quattromila lo seguono nel suo piano per raggiungere Venezia ed unirsi agli insorti, ma l’impresa era disperata: si trattava di marciare per centinaia di chilometri in territori battuti da borbonici, austriaci e papalini, e l’enorme prestigio del generale, unito alle astuzie tattiche per sfuggire il nemico, non valsero a rinsaldare un morale ormai a terra in uomini privi di qualsiasi equipaggiamento e che dovunque arrivassero si trovavano rifiutati dalle autorità e, spesso, anche dalle stesse popolazioni timorose delle rappresaglie. Il 31 luglio, a S. Marino, Garibaldi sciolse formalmente la Legione, già decimata dalle diserzioni, e con un piccolo nucleo cercò di proseguire via mare per Venezia. Le imbarcazioni furono intercettate dagli austriaci, e solo poche persone riuscirono a toccare terra: di queste la maggior parte (tra cui Ugo Bassi, il barnabita in camicia rossa) furono catturate e sbrigativamente passate per le armi; Garibaldi si ritrovò praticamente da solo a vagare per le paludi di Comacchio nel disperato tentativo di sfuggire alle pattuglie che lo cercavano alacremente. Anita, incinta di sei mesi e gravemente ammalata, era ormai allo stremo e non riuscì a resistere: morì in una cascina vicino a Ravenna e Garibaldi non poté trattenersi nemmeno per il tempo necessario a seppellirla. Su questo episodio non fiorì solo la leggenda dell’eroe che vede morire fra le proprie braccia la compagna che combatteva insieme a lui: non pochi, anche su autorevoli giornali, furono coloro i quali insinuarono che Garibaldi stesso avesse ucciso quella donna, probabilmente incinta di un altro, per fuggire più agevolmente, e che insieme al cadavere avesse anche sepolto un tesoro trafugato da qualche basilica vaticana. Sordida assonanza con altre calunnie che un secolo più tardi perseguiteranno altri garibaldini. Eppure la leggenda continuò, e s’ingigantì: una leggenda, si badi bene, sostanzialmente aderente alla realtà, ma non per questo meno epica ed emozionante. Garibaldi entrò definitivamente nella storia come uno dei personaggi più grandi del suo tempo. Sfuggito ai gendarmi Garibaldi riesce fortunosamente a riparare in Toscana e poi in Liguria, ma il governo piemontese se ne vuole sbarazzare al più presto: gli si dia un sussidio, lo si mandi in America, altrimenti lo si arresti. Stranamente è proprio quel Parlamento che egli, pur facendone parte, sdegnosamente non aveva mai frequentato, a esprimergli solidarietà, votando a larga a maggioranza un ordine del giorno nel quale si contesta la validità costituzionale dell’arresto del generale e della minaccia di espellerlo dal regno. Garibaldi non se la sente di dare battaglia sul piano giuridico, ringrazia i tanti che lo hanno aiutato e preferisce andarsene: nel giugno del 1850, a quarantatre anni, col fisico minato dall’artrite, riprende la strada dell’esilio, riprende il mare.Nelle Memorie Garibaldi definì sempre come inutili, oziosi, privi di interesse, gli anni passati lontano dai campi di battaglia, eppure, se effettivamente le sue iniziative commerciali non sono degne di nota, è pur vero che i numerosi viaggi ed i periodi trascorsi in mare al comando di mercantili gli consentirono senza dubbio esperienze di vita e contatti decisamente al di là della portata di un uomo normale del XIX secolo o anche di numerosi esponenti di primo piano di governi e Stati maggiori. New York, Canton, Lima, Brisbane, sono solo alcuni dei porti che toccò in quei quattro anni, finché, con i pochi risparmi messi da parte decise che era tempo di ritornare in Europa. A Londra conobbe alcuni personaggi di spicco del movimento rivoluzionario internazionale, dal russo Herzen all’ungherese Kossuth, ma non trascurò la propria vita privata, addirittura fidanzandosi con una bella signora della buona società, Emma Roberts. Riprese i contatti con Mazzini, col sincero intento di superare le vecchie incomprensioni, ma, se certamente era ancora un entusiasta, aveva anche imparato a destreggiarsi meglio nell’agone politico, tanto che si sforzò di dimenticare l’accoglienza riservatagli dalla monarchia dopo la caduta di Roma e nuovamente indicò nel re la figura che, unica, poteva guidare il processo d’indipendenza: così si attirò ancora gli strali di Mazzini, il quale parossisticamente anteponeva la fede repubblicana a qualsiasi analisi politica, e poiché, in ogni caso, da Torino non gli giungevano segnali particolarmente incoraggianti, decise di proseguire la fase di attesa. Forse sentiva anche il peso di un’età, cinquant’anni, che a quell’epoca poteva considerarsi abbastanza avanzata, e desiderava dedicarsi ai figli che aveva trascurato a lungo; oltre a tutto l’artrite e gli altri acciacchi gli avrebbero reso impossibile riprendere il mare, così acquistò quasi metà di Caprera, una rocciosa isola dell’arcipelago della Maddalena. Garibaldi descrisse quel periodo con le solite frasi sbrigative; in realtà non fece solo l’agricoltore, navigò parecchio, fu a Londra, e coltivò molte conoscenze femminili: per meglio dire, erano soprattutto le signore ad interessarsi a lui, e la cosa non gli dispiaceva affatto, salvo non immaginarsi imprigionato in una vita matrimoniale scandita da obblighi sociali ed impegni mondani; ruppe il fidanzamento con Emma Roberts, con cui tuttavia mantenne rapporti di amicizia, s’impegnò in una intensa relazione con Maria Espérance von Schwartz e fu certamente un rapporto molto profondo, poiché la donna non solo gli perdonò la figlia che nel 1859 egli ebbe da Battistina Ravello ma si assunse anzi l’onere dell’educazione di questa bambina, Anita, e, ancora, non ruppe con lui malgrado nel 1860 si fosse sposato, senza dirle nulla, con Giuseppina Raimondi; tanto più che questo matrimonio ebbe risvolti davvero grotteschi: poche ore dopo la celebrazione Garibaldi seppe che la sposa era in attesa di un bambino, ovviamente non suo, e quindi abbandonò immantinente la scaltra fanciulla.Se, dunque, fino al 1859 Garibaldi condusse sostanzialmente una vita distante dall’impegno politico diretto, non interruppe i contatti e le iniziative: nel ‘56 incontrò Cavour e, malgrado le enormi distanze ideologiche e l’assenza di qualsiasi simpatia reciproca, fra i due si stabilì quello che poteva dirsi a tutti gli effetti un accordo politico, basato sulla consapevolezza che entrambi erano espressione di fattori essenziali e complementari ai fini del processo di indipendenza: Cavour rappresentava l’alta politica, il lavoro diplomatico, gli interessi delle classi dirigenti, e, soprattutto, il peso della monarchia; Garibaldi era il punto di riferimento delle classi popolari, il condottiero in grado di creare un esercito dal nulla, lo stratega brillante capace di opporsi al nemico più agguerrito. Entrambi diffidavano l’uno dell’altro, il primo paventava il rigore rivoluzionario del nizzardo e l’ascendente che questi poteva vantare fra le masse, il secondo temeva l’abilità indiscutibile dello statista avvezzo agli intrighi e disposto a stroncare ogni iniziativa che sfuggisse al proprio controllo: ma tutti e due capivano che l’abilità dell’uno era inefficace senza lo spirito di iniziativa dell’altro, e viceversa. Si può dire, schematizzando al massimo, che da questo incontro nacque la vera prospettiva politica di riscatto dell’Italia, assai più concreta del rivoluzionarismo mazziniano. Nel 1858 Garibaldi diede una dimostrazione pubblica di questo suo orientamento, aderendo alla Società Nazionale promossa da Daniele Manin proprio per unire in un fronte unitario democratici e monarchici. E quando maturarono le condizioni prospettate da Cavour, spingere l’Austria ad un atto di ostilità che giustificasse l’entrata in guerra del Piemonte e del suo potente alleato, la Francia, Garibaldi non esitò a mettersi a disposizione e Cavour fece sì che egli venisse nominato ufficialmente generale dell’esercito piemontese e assumesse il comando di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi . Garibaldi avrebbe voluto portare la guerriglia in Lombardia, per disorientare il nemico e al tempo stesso spingere i lombardi all’insurrezione, ma il piano venne messo da parte, sia perché una rivolta popolare, ancorché sotto le bandiere dell’Italia, non poteva non impensierire seriamente gli ambienti conservatori di Torino, sia perché, come lo stesso Garibaldi fu costretto ad ammettere, in Lombardia e anche altrove non c’era poi quell’incontenibile e unanime desiderio di combattere per il solo fatto di essere italiani. Garibaldi fu costretto ad un ruolo di secondo piano, con pochi uomini (circa 3.500 a fronte dei 60.000 piemontesi e dei 120.000 francesi) e per di più male equipaggiati, ma anche inesperti e indisciplinati: del numero di soldati e della condizione degli armamenti. Garibaldi poteva a ragione incolpare il governo, e in fondo anche la qualità del materiale umano dipendeva in buona misura dalla ritrosia dello Stato Maggiore a rinforzare un corpo guidato da un comandante notoriamente non ortodosso. Se in questa precaria situazione Garibaldi poté effettuare efficaci azioni di disturbo nei confronti dell’esercito imperiale, addirittura sconfiggendolo in campo aperto a Varese, è ragionevole supporre che con un vero esercito a disposizione il generale avrebbe potuto imprimere alla guerra un esito sensazionale. Ai primi di giugno, nell’arco di una settimana, gli austriaci furono battuti a Palestro e a Magenta, e anche qui Garibaldi vide giusto: occorreva sfruttare appieno il vantaggio acquisito e non dare tregua al nemico, mentre l’esitazione dei franco-piemontesi permise la riorganizzazione del fronte avverso, tanto che gli schieramenti si fronteggiarono in una battaglia infernale, a Solferino, senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere. Con l’armistizio di Villafranca (luglio ‘59) il Piemonte ottenne una parte della Lombardia e qui Garibaldi confermò che il suo senso politico non era poi così mediocre: una guerra che avesse prodotto i risultati su cui puntava Cavour (acquisizione di tutto il Lombardo-Veneto) avrebbe, paradossalmente, potuto fiaccare non poco il percorso unitario, lasciando il Piemonte pago del proprio rafforzamento. La situazione invece restava aperta, tanto più che Firenze e Modena avevano cacciato i duchi e Bologna si era resa indipendente dallo Stato pontificio: questi nuovi governi repubblicani avevano costituito un proprio esercito e Garibaldi venne chiamato a farne parte, come vice comandante sotto Manfredo Fanti. Purtroppo nulla andò come Garibaldi aveva sperato: non solo non aveva il comando supremo, ma ai suoi ufficiali era stato ordinato di disubbidirgli nel caso avesse preso iniziative inconsuete; Vittorio Emanuele fece il doppio gioco: gli aveva lasciato intendere che, pur non potendolo appoggiare ufficialmente, non lo avrebbe bloccato se avesse tentato un colpo di mano contro lo Stato pontificio, ma alla prova dei fatti da Torino vennero posti ostacoli insormontabili. Nell’insieme la situazione era dominata da manovre politiche, conflitti personali, oscure trame diplomatiche, e Garibaldi non era certo l’uomo adatto a destreggiarsi più che tanto in simili paludi: a metà novembre si dimise e tornò a casa. Era francamente disgustato e infatti esitò a lungo prima di aderire alla richiesta di fare da gran mediatore tra le varie fazioni democratiche, divise e litigiose, al fine di arrivare alla loro unificazione: il tentativo fallì miseramente, così come non riuscirono la sottoscrizione per raccogliere un milione di fucili e l’organizzazione del movimento Nazione Armata. Nondimeno Garibaldi continuò una sua attività politica, addirittura tentando un riavvicinamento con Cavour, del quale conosceva fin troppo bene l’abilità; ma Torino aveva puntato tutto sull’alleanza con Parigi, e l’unico modo per consolidarla era cedere alle pretese di Napoleone, così nel marzo 1860 la Savoia e Nizza furono cedute alla Francia. Il rappresentante di Nizza al Parlamento di Torino, deputato Giuseppe Garibaldi, fece una delle sue rare apparizioni in aula e sferrò un attacco violentissimo contro il primo ministro che "barattava uomini e popoli" e che per liberare l’Italia dallo straniero l’asserviva ad un altro straniero, forse ancora più avido e volgare. La rottura con Cavour non poteva essere più drastica e l’ex parlamentare (si era dimesso subito dopo il discorso) prese ancora una volta la strada di Caprera.Ormai, però, il sogno di una vita, l’unità di un’Italia indipendente, sembrava davvero realizzabile, con un regno di Sardegna rafforzato e quasi tutta l’Italia centrale libera, e un regno di Sicilia che forse vacillava per l’iniziativa dei rivoluzionari. Le difficoltà organizzative erano comunque enormi: le armi acquistate con la sottoscrizione furono sequestrate dal governo piemontese e quelle procurate dalla Società Nazionale erano antiquate o addirittura non funzionavano, e malgrado i numerosi aiuti finanziari non era impresa da poco rifornire una spedizione di quel genere; e infatti i 1.089 uomini che sbarcarono in Sicilia avevano davvero un equipaggiamento a dir poco approssimativo; anche procurarsi le navi non fu affatto semplice, e tutti questi problemi, oltre alle considerazioni politiche di carattere generale, lasciarono Garibaldi esitante fino all’ultimo. Comunque, all’alba del 6 maggio, nei pressi di Genova, a Quarto, l’avventura ebbe inizio. Più volte, nel narrare le proprie vicissitudini, Garibaldi notò come il caso risulti spesso essere l’elemento decisivo in una battaglia, e anche in questo frangente ne abbiamo una conferma. Le due navi dovevano procedere di conserva ma un malinteso fece sì che si perdessero di vista, costringendole a impiegare varie ore per ritrovare il contatto: il contrattempo fu provvidenziale, perché consentì ai due vapori di non incrociare la flotta borbonica, che non avrebbe avuto difficoltà a mettere fuori combattimento le vecchie imbarcazioni dei garibaldini: in realtà la fortuna fu doppia, perché le navi da guerra nemiche non erano nemmeno nel porto di Marsala, il che avrebbe certamente impedito lo sbarco. Ammaestrato dalle infelici esperienze avute nelle campagne lombarde, Garibaldi ebbe l’accortezza di non presentarsi ai contadini semplicemente come un "liberatore", o, peggio ancora, di limitarsi a proclamare che prendeva possesso della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele: diede segni molto concreti del cambiamento, abolendo le tasse sul sale e sul pane, e addirittura promettendo di ridistribuire il latifondo. Dopo la travolgente vittoria di Calatafimi la strada per Palermo era libera, tanto più che la notizia si sparse rapidamente in tutta l’isola e l’appello ad attaccare i soldati borbonici ovunque fossero ebbe un certo successo. In realtà Garibaldi poteva contare su poco più di tremila uomini male armati, mentre Palermo era molto ben difesa: ma a quel punto niente sembrava potergli resistere, le sue truppe avevano acquistato una fama certamente di gran lunga superiore alla loro effettiva forza, e i focolai di rivolta all’interno della città contribuirono a dare ai borbonici un quadro drammatico che era ben lungi dall’essere aderente alla realtà. Così, quando il comandante della piazza, il generale Lanza, preoccupato dall’andamento degli scontri, decise di trattare, Garibaldi accentuò il bluff ed ottenne praticamente una resa senza condizioni, a parte quella di consentire il rientro via mare dei borbonici a Napoli. A Milazzo le cose non andarono altrettanto bene e fra i garibaldini vi furono quasi ottocento tra morti e feriti, tuttavia ormai Garibaldi era padrone dell’isola. Anzi, ne divenne dittatore in nome del re, e così continuava la partita doppia: il Piemonte ufficialmente non approvava, per non inimicarsi la Francia, e, a seconda che Garibaldi avesse vinto o perso, era pronto a scaricarlo o ad onorarlo. La parte decisiva dello scontro si prospettava sul continente, dove i borbonici erano numerosi ed agguerriti e non sembrava sufficiente il pur notevole ingrossamento delle fila garibaldine, che potevano adesso contare su circa dodicimila uomini in Sicilia e ottomila al Nord al comando di Bertani. Ma, incredibilmente, ancora una volta la leggenda superava la realtà: in Calabria l’esercito borbonico si sfaldò e dopo un’avanzata irresistibile il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli. Fu per calcolo o per pura temerarietà che il generale si concesse un formidabile coup de théatre? Non entrò in città alla testa delle sue colonne, ma solo con una piccola avanguardia, con la popolazione che lo acclamava e i soldati nemici che invece di farlo fuori in un baleno gli presentavano le armi. Prima dittatore della Sicilia e ora di Napoli, doveva comunque fare ancora i conti con il grosso dell’esercito di Francesco II, attestatosi più a nord. Non che sottovalutasse questo ostacolo, però non lo riteneva certo insormontabile rispetto all’obiettivo primario: liberare Roma. Ciò nondimeno il gioco si faceva complesso, oltre che duro: tramite numerosi agenti Cavour tesseva trame nelle città occupate e lavorava alacremente per imprimere una decisa svolta moderata ai movimenti in atto in tutta le penisola; Vittorio Emanuele faceva il triplo gioco, cercando di mantenere i migliori rapporti con la Francia, con Garibaldi e… col proprio primo ministro; Garibaldi navigava con inusitata perizia in queste acque torbide, dimostrandosi assai più accorto di come abitualmente viene descritto. Non solo aveva ben chiare tali manovre, ma operò con grande senso politico nel governo della città, lasciando un certo numero di ministeri ai meno radicali e badando di non scontrarsi troppo apertamente con le forze cattoliche; voleva battere sul tempo i progetti cavouriani e mettere la Francia di fronte al fait accompli di una Roma capitale d’Italia. Naturalmente Cavour si dimostrò il più abile di tutti: prospettò al re le proprie dimissioni e una conseguente crisi dagli esiti imprevedibili, costringendolo a rinnovargli la fiducia sul piano formale e sostanziale; e immediatamente ordinò l’ingresso delle truppe piemontesi in Umbria e nelle Marche, imponendo su gran parte dello Stato pontificio l’autorità di un governo amico della Francia e togliendo l’iniziativa ai rivoluzionari. In un simile frangente aggirare l’esercito borbonico e puntare a Roma diventava improponibile, così Garibaldi si risolse ad affrontare i borbonici in campo aperto: la battaglia sul Volturno fu difficile e dall’esito nient’affatto scontato, e più che altrove Garibaldi dimostrò le sue capacità di stratega. La vittoria fu netta e altrettanto chiaro fu che la campagna era finita lì. Rifiutando sdegnosamente ogni ricompensa Garibaldi ritornò a Caprera e al suo mestiere di agricoltore, così ingrato in quell’isola con troppi sassi e poca terra: un gesto che, lungi dal riportarlo nell’ombra, lo consacrò nella leggenda.Difficile dubitare che non ne fosse ben consapevole: eletto deputato del nuovo regno, nell’aprile del 1861 si presentò in aula con la camicia rossa ed il mantello bianco. Era il primo ministro il grande avversario di Garibaldi, ma, paradossalmente, quando poco tempo dopo Cavour morì, Garibaldi si rese conto che il resto della classe politica era assai peggio: Cavour almeno era abile e deciso, mentre costoro facevano dell’irresolutezza il proprio credo. Ritornare a Caprera fu una scelta obbligata. In realtà Garibaldi non intendeva certo estraniarsi dalla realtà politica e Roma, insieme a Venezia, era sempre al centro dei suoi pensieri: da un lato si adoperò attivamente nella campagna di raccolta di fondi per l’acquisto di armi, dall’altro ebbe un’intensa serie di colloqui a livello governativo per preparare quella spedizione che egli riteneva inevitabile e imminente. Il primo ministro Rattazzi giocò ancora più sporco di Cavour, e dopo aver prospettato un’azione di comune intesa fece retromarcia, non senza forti momenti di tensione. Con notevole intuito politico Garibaldi scelse come base della propria iniziativa quella Sicilia che lo aveva accolto trionfalmente: concentrò armi e materiali, chiamò a raccolta qualche migliaio di volontari da tutta Italia, s’impadronì di alcune navi e sbarcò in Calabria. Forse Napoleone stava addirittura meditando di disimpegnarsi e di lasciare il papa al suo destino, tuttavia l’opinione pubblica cattolica insorse e l’imperatore dovette mantenere ferma la posizione tradizionale; dopo mille intrighi, anche Rattazzi ruppe gli indugi, temendo che si fosse davvero in una fase prerivoluzionaria, e ordinò alle truppe del generale Cialdini di intervenire con durezza. Alla fine di agosto, ad Aspromonte si concluse la marcia su Roma. Per Garibaldi, seriamente ferito, umiliato, abbandonato da molti suoi sostenitori, l’esilio era ineluttabile.Era talmente amareggiato che nel 1863, nel pieno della guerra di secessione, quando Lincoln gli offrì il comando di un corpo d’armata, rifiutò; forse anche perché non era stata accolta la piccola condizione che aveva posto: il comando supremo di tutte le truppe nordiste. Il soggiorno in Inghilterra nella primavera dell’anno successivo dimostrò al mondo intero quanto ormai fosse straordinaria la fama che circondava Garibaldi: la popolazione gli tributò ovunque, non solo a Londra, un’accoglienza strepitosa, che non ebbe eguali in tutta la storia moderna, la stampa faceva a gara nel dipingerlo come il più grande eroe del secolo, i salotti e i circoli politici si contendevano accanitamente la sua presenza Rientrato in Italia, accoglie in casa propria una giovane piemontese, Francesca Armosino, in qualità di balia di uno dei suoi nipoti: non si può certo dire che se ne innamorò perdutamente, ma dopo qualche tempo si creò fra loro un legame di affetto e di piacevole consuetudine, tanto che l’unione si stabilizzò e da essa nacquero vari figli. Passò un periodo molto tranquillo, fintanto che non si approssimò un nuovo scontro con gli austriaci: non si trattò di un’iniziativa italiana, bensì di un astuto piano di Bismarck, il quale tramite una guerra contro l’Austria voleva sancire definitivamente l’egemonia della Prussia sulla regione tedesca, e quindi volle l’Italia come alleata per costringere Vienna ad impegnarsi su di un secondo fronte. Certamente Garibaldi si aspettava ben di più di quanto La Marmora, nuovo primo ministro, gli offrì il comando di un Corpo di Volontari equipaggiati in modo piuttosto approssimativo e con pochissima esperienza, senza nemmeno poter contare su un’efficiente catena di comando, dato che i migliori ufficiali garibaldini erano entrati a far parte dell’esercito regolare. I montanari tirolesi si guardarono bene dall’accogliere Garibaldi come un liberatore, ciò nonostante il generale condusse le operazioni con la solita perizia tattica: a Bezzecca bloccò la discesa degli Austriaci e si aprì la strada per Trento. Avrebbe potuto prendere la città in pochi giorni, quando gli arrivò la notizia dell’armistizio e la sua secca riposta all’ordine di fermarsi è diventata il più celebre telegramma della storia. Una guerra grottesca e inutile: gli Austriaci, maggiormente impegnati contro l’avversario prussiano, erano nettamente inferiori e tuttavia inflissero agli italiani due cocenti sconfitte, a Custoza e a Lissa; i nipotini di Cavour, che vagheggiavano Trieste e sognavano le Alpi come nuovo confine della patria, avevano immaginato di poter usare la Prussia così come il conte aveva usato la Francia, però appena Bismarck, ottenuto ciò che voleva, si disimpegnò, non se la sentirono di andare fino in fondo. Ma Venezia era italiana! Peccato che Vienna già mesi prima fosse pronta a cedere la regione veneta senza contropartite purché l’Italia restasse fuori dal conflitto. Ancora una volta il sentimento che prevale in Garibaldi è l’amarezza: non solo per l’inettitudine delle gerarchie militari e l’opportunismo del governo, ma per il senso d’inutilità che sembrava accompagnare il sacrificio dei tanti patrioti che avevano combattuto per l’unità italiana. E vi era un unico modo per cancellare questa vergogna: cacciare il Papa da Roma.Garibaldi si avvicina rapidamente alla sua ultima battaglia, che, a differenza delle altre, perderà. È il risultato di quello che potremmo definire un potente vizio ideologico. Garibaldi voleva credere che il sentimento nazionale e l’amor di patria, che nella fattispecie si traducevano nell’obiettivo di un’Italia unita, fossero inevitabilmente diffusi e quindi in grado di travolgere meschinità politiche, egoismi individuali, privilegi corporativi. E così il suo convincimento che ormai vi fossero tutte le condizioni per liberare Roma poggiava su basi decisamente fragili. In qualche modo si ripeté quanto già accaduto con i Mille: il governo da un lato lasciava intendere il proprio appoggio e dall’altro agiva in vario modo per coprirsi le spalle nel caso l’impresa di Garibaldi fosse fallita e avesse provocato una bufera diplomatica. In questo altalenarsi di contatti e prese di distanza, il primo ministro Rattazzi cercava evidentemente di "seguire la politica di Cavour, senza la sua finezza". Tant’è che all’improvviso decise di bloccare tutto e fece arrestare illegalmente il deputato Garibaldi, salvo poi, di fronte alle proteste che immediatamente ne seguirono, rispedirlo a Caprera. O forse il disegno era davvero sottile: il governo aveva dimostrato la propria contrarietà verso la spedizione romana, addirittura bloccandone l’artefice, ma se nello Stato pontificio vi fosse stata un’insurrezione "spontanea" l’intervento italiano sarebbe stato inevitabile al fine di preservare la legge e l’ordine. Fatto sta che Garibaldi riuscì a evadere dal soggiorno obbligato nella sua isola, e arrivato a Firenze proclamò, parafrasando quel Nelson che ammirava tanto, che "l’Italia si aspetta che ciascuno compia il proprio dovere". Di fronte all’irrigidimento della Francia, che allertò le truppe di stanza a Roma, Vittorio Emanuele licenziò Rattazzi e ordinò di arrestare Garibaldi. Avvertito dall’amico Crispi, Garibaldi riuscì a defilarsi e a riunirsi con le proprie truppe. In effetti più che di truppe si dovrebbe parlare di un fragile esercito, raccogliticcio e male armato, che avrebbe dovuto affrontare soldati perfettamente addestrati ed equipaggiati, senza neppure poter contare sull’insurrezione dei romani, ormai dimentichi del sacro furore che li aveva animati nel lontano ‘49. Malgrado l’esito favorevole di alcuni scontri iniziali, tra cui la presa dell’importante roccaforte di Monterotondo, la resa dei conti era ineluttabile, ed è sorprendente che un tattico così brillante come Garibaldi non se ne fosse reso conto: a Mentana la sconfitta fu assoluta e Garibaldi si trovò nuovamente agli arresti. Ancora una volta Roma era irraggiungibile, e Garibaldi non poteva non sentirsi tradito e umiliato: verosimilmente le numerose digressioni polemiche delle Memorie, in cui attacca violentemente la classe politica, Mazzini e il papato, hanno in Mentana il punto focale. In ogni modo non è un caso che decise di modificare più volte le Memorie, proprio per adeguarne lo svolgimento con le opinioni ex post che si era formato in merito alle vicende italiane.Negli anni successivi passò il proprio tempo a coltivare la terra e a scrivere: è il periodo in cui si dedicò alacremente alla stesura dei suoi romanzi storici, che neppure la generosa collaborazione dell’amico Dumas riuscì a far diventare qualcosa di più che modestissimi esercizi letterari, dei quali si è praticamente persa ogni traccia. Se in molte occasioni Garibaldi aveva dimostrato ampiamente la propria modestia, in questo caso diede prova di una presunzione irragionevole, immaginando che la propria esperienza di vita, per tanti versi unica, fosse sufficiente a fargli ripercorrere le orme di Dumas o di Hugo. Quando, cogliendo l’occasione del ritiro delle truppe francesi dallo Stato pontificio e del loro invio sul fronte prussiano, il 20 settembre 1870 i soldati italiani entrarono finalmente a Roma, Garibaldi non reagì con particolare gioia: più d’uno commentò malignamente che ciò era dovuto al fatto che egli non ebbe alcuna parte nella vicenda, e certamente il risentimento personale ebbe gran peso in questo atteggiamento. E tuttavia, come dargli torto? Aveva speso una vita, o almeno gran parte di essa, a predicare, e a combattere, per la presa di Roma, per questo lo avevano arrestato, sbeffeggiato, quasi ucciso, e ora, per mere ragioni di opportunità politica, avevano compiuto l’impresa della sua vita non solo evitando di coinvolgerlo minimamente, ma senza neanche una parola di omaggio nei suoi confronti.Deluso e amareggiato, reagì nel modo che gli era abituale: entrare in azione. Nella guerra franco-prussiana era francamente arduo individuare quale dei contendenti fosse "dalla parte della libertà", ma dopo la battaglia di Sedan e il crollo dell’impero la nuova Repubblica francese apparve a Garibaldi una buona causa per cui battersi, e partì senza indugio per Marsiglia. Ingombrante questa presenza, e senza dubbio i governanti francesi ne farebbero volentieri a meno, ma sull’onda dell’entusiasmo popolare il plenipotenziario Gambetta è praticamente costretto ad affidargli un comando: la cosiddetta Armata dei Vosgi, in realtà poco più di cinquemila uomini. Il generale ha ormai sessantaquattro anni, le antiche ferite si fanno sentire, gotta e reumatismi lo debilitano, è costretto a spostarsi in carrozza, ma, ad onta di quanto vanno dicendo i suoi detrattori, è ancora un vecchio leone. E soprattutto non ha perso nulla delle sue capacità di combattente. Con quella truppa mediocre che si ritrova, tiene testa abilmente ad un esercito composto da quarantamila prussiani, veterani spietati e pronti a tutto, guidati da quel generale Werder che era considerato uno dei soldati più temibili e capaci dell’epoca. Addirittura, dopo tre giorni di combattimenti, a Digione ottiene una strepitosa vittoria, riuscendo anche a catturare una delle due uniche bandiere perse dai prussiani nel corso del conflitto. Così commentò il Ministro della Guerra Freycinet: "È veramente il nostro miglior generale", e dopo tante umiliazioni per Garibaldi quel riconoscimento valse più di qualsiasi medaglia. Come certamente sarebbe stato fiero di quel che ebbe a dire un Bismarck furente e indignato al ricordo delle vicende del ‘66: "Questo Garibaldi spero che si riesca a prenderlo vivo. Lo metteremo in una gabbia e lo esporremo a Berlino con un cartello: l’ingratitudine italiana". Le sorti della guerra sono comunque segnate, la Francia accetta un pesante accordo di pace e l’Armata dei Vosgi viene sciolta.Garibaldi vorrebbe tornare a casa, ma i suoi amici lo candidano alle elezioni e viene eletto deputato in numerose circoscrizioni, tra cui Nizza; a Parigi, poi, ottiene un successo clamoroso, prendendo addirittura più di 200.000 voti e seguendo a ruota Louis Blanc, Victor Hugo e Léon Gambetta. L’Assemblea nazionale ha sede a Bordeaux (per espresso volere di Bismarck) e si riunisce al Grand Théatre: Garibaldi vi entra col poncho e la camicia rossa, la sinistra e il pubblico lo acclamano, i deputati della destra lo insultano e gl’impediscono di parlare. In realtà egli aveva già rinunciato alla carica, e quel gesto volle essere un modo spettacolare, teatrale, appunto, per congedarsi definitivamente dalla vita pubblica. Il 18 marzo 1871 Parigi insorge, è la Comune. Il suo Comitato Centrale chiede a Garibaldi di assumere il comando delle truppe rivoluzionarie, ma il generale, pur manifestando la propria solidarietà, declina l’incarico. Certamente la salute di Garibaldi è pessima, ma non è solo per questa ragione che egli non si reca a Parigi. All’Aspromonte si era rifiutato di sparare sui soldati piemontesi, e sempre gli era ripugnata l’idea di combattere, anche per una giusta causa, contro dei compatrioti: come poteva immaginare, lui che era stato eletto deputato di Francia, di mettersi alla testa di francesi che combattevano altri francesi? Il rivoluzionario Garibaldi, l’alfiere del cosmopolitismo e della fratellanza universale, si ritrova prigioniero di una visione angusta e schematica della lotta politica e in questa occasione rivela i profondi limiti del suo orizzonte politico: non comprende il significato universale della Comune, il suo essere comunque un paradigma per le nascenti forze della rivoluzione. In realtà, come è stato osservato da più parti, la stessa maggioranza dei comunardi aveva sottovalutato questo aspetto, e fu sostanzialmente Marx l’unico che si rese conto di come la Comune avesse aperto una nuova strada per l’internazionalismo. E sarà più per sentimento che per riflessione politica che più tardi Garibaldi rimpiangerà la propria decisione di non essere stato in mezzo ai "soli uomini che in questo periodo di tirannide e di menzogna, di codardia e di degradazione, hanno tenuto alto il santo vessillo del diritto e della giustizia". La sua vita era ormai a Caprera, e la vecchiaia si fa sentire sempre di più, nonostante l’allegria e il vigore ritrovati con la nascita di Manlio, il terzo figlio che gli dà Francesca Armosino, dopo Clelia e Rosa. Rieletto deputato, si reca raramente a Roma, e dopo aver accolto con gioia l’andata al governo di Depretis (ufficiale garibaldino al tempo dei Mille) ben presto prenderà le distanze da quella Sinistra parlamentare che diede il meglio di sé nella pratica del trasformismo. È l’ennesima delusione politica di Garibaldi, che già aveva compromesso la propria appartenenza al movimento socialista: aveva aderito entusiasticamente all’Internazionale (è sua la celebre espressione "sole dell’avvenire", riferita al socialismo), e quando nel 1874 i primi militanti dell’Internazionale erano stati arrestati, Garibaldi fu tra i primi a difenderli pubblicamente; era sì un rivoluzionario, ma più sul piano militare che su quello politico: immaginava le masse che si ribellano in armi allo straniero e all’oppressore ma non che trasformano questa guerra in lotta per il potere. "La parola proletario non fa parte del linguaggio garibaldino. Egli parla di Italiani, di popolo; non si trova sotto la sua penna il riconoscimento della lotta di classe di cui il proletariato sarebbe la forza motrice. Garibaldi preferisce dividere il mondo secondo il principio del bene e del male." Questo suo particolare moderatismo gli alienò le simpatie dell’Internazionale, che appunto puntava sempre più ad elaborare una strategia politica, tanto che alla fine del ‘74 essa invitò pubblicamente il popolo italiano a non ascoltare l’interpretazione "equivoca " che del socialismo dava Garibaldi. Il pacifismo universale, una sorta di umanesimo moderno venato di pessimismo, diventa la filosofia dei suoi ultimi anni.Non è dunque per un tardivo perbenismo (fra i molti difetti di Garibaldi non vi era certo quello dell’ipocrisia), ma per un profondo bisogno di armonia, che, sentendosi ormai alla conclusione della propria esistenza, egli volle onorare la figura di Francesca Armosino, che per tanti anni lo aveva amorevolmente assistito. Ottiene, non senza fatica, l’annullamento del matrimonio con quell’Emma Raimondi che l’aveva abbindolato tanto tempo prima, e finalmente, a settantatre anni, sposa Francesca, con intorno tutta la sua grande famiglia. Nella primavera del 1882 il suo vecchio amico Crispi, siciliano, lo volle accanto a sé per le celebrazione del seicentesimo anniversario del Vespri: è l’ultimo, trionfale viaggio di un Garibaldi ormai stremato. Tornato a Caprera, muore il 2 giugno. Sulla pietra tombale viene incisa una stella, quella dei Mille, e sotto solo un nome: Garibaldi.

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