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(Questa pagina è il tributo ad uno dei più importanti ed originali filosofi del novecento, preghiamo di non scrivere per avere indirizzi, numeri di telefono, email o quant'altro che non siamo autorizzati a fornire) (nato a Lentini, 9 dicembre 1924) è un filosofo, poeta e drammaturgo italiano.Vicino a forme di pensiero nichiliste ed a pensatori come Emil Cioran o Karl Kraus, ha pubblicato numerosi libri, contraddistinti dal gusto per l'aforisma e da una forte vena caustica.Ha conosciuto una fama notevole negli anni '90 soprattutto grazie alla lunga e proficua collaborazione artistica con Franco Battiato nella scrittura di numerosi testi, a partire dal libretto per l'opera del 1994 Il cavaliere dell'intelletto.Opere* Anatol (Adelphi, 1990) * Anatol (Circé, 1998 - edizione francese) * Contro la musica: sull'ethos della musica (De Martinis, 1994) * De la pensée brève (Circé, 1998 - edizione francese di Del pensare breve) * Dell'indifferenza in materia di società (Adelphi, 1994) * Del metodo ipocondriaco (Il girasole, 1988) * Del pensare breve (Adelphi, 1991) * De mundo pessimo (Adelphi, 2004) * Dialogo sul comunismo (De Martinis, 1995) * Dialogo teologico (Adelphi, 1993) * La conoscenza del peggio (Adelphi, 2007) * La consolazione (Adelphi, 1996) * La morte del sole (Adelphi, 1982-1996) * Nietzsche: frammenti di una biografia per versi e voce (Bompiani, 1998) * Opus postumissimum: frammento di un poema (Giubbe rosse, 2002) * Quaternario: racconto parigino (Il girasole, 2006) * Teoria della canzone (Bompiani, 1997) * Traité de l'âge: une leçon de métaphysique (Payot, 2001 - edizione francese di Trattato dell'età) * Trattato dell'empietà (Adelphi, 1987-2005) * Trattato dell'età: una lezione di metafisica (Adelphi, 1999) * Vom Tod der Sonne (Hanser, 1988 - edizione tedesca de La morte del sole)Edizioni a tiratura limitata: Poesie - 1999 edizione in 72 esemplari su carta a mano (la Pietra Infinita) Segrete - Manlio Sgalambro e Davide Benati ed. in 32 esemplari su carta a mano con due acquerelli originali di Davide Benati (La Pietra Infinita - 2001) Il Dolore occidentale - Manlio Sgalambro e Antonio Contiero ed. in 32 esemplari su carta a mano con illustrazioni del pittore Massimo Pedrazzi. (La Pietra Infinita - 2003)Collaborazioni con Franco Battiato* 1994: libretto per l'opera Il cavaliere dell'intelletto; * 1995: L'ombrello e la macchina da cucire; * 1996: L'Imboscata e l'inedito Declin and fall of the Roman Empire (contenuta nel singolo Strani giorni); * 1998: Gommalacca e gli inediti Stage door I e II, Emma e "L'incantesimo; * 1999: Fleur * 2000: Campi magnetici, nel quale recita brani in diversi pezzi e canta La mer; * 2001: Ferro Battuto; * 2002: Fleurs 3; * 2003: sceneggiatura del film Perduto Amore; * 2004: X Stratagemmi; * 2005: sceneggiatura per il film Musikanten e partecipazione alla trasmissione di Battiato Bitte,keine reklame (Rai Doc); * 2007: Il Vuoto e sceneggiatura del film Niente è come sembraDiscografia* Fun club (Sony, 2001)
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da: ANATOLAnatol, la voce che parla in questo libro, è una mente che si racconta. Non accumula episodi. Disegna i tratti sghembi di un personaggio che ormai “un numero incredibilmente piccolo di individui” conosce: il filosofo. Come apparirà? “Pacifico, con l'aria di un conciapelli in vacanza… eppure i segreti del mondo passano per le sue mani”. Subito l'aria trema di un sarcasmo violento. Questo filosofo è quanto di meno conciliante possiamo immaginare. Con lui torniamo a sentire “quel che di cupo e fatale c'è in fondo a ogni idea”. Quale funzione si attribuisce? Riscrivere Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, “senza cambiarne una riga”, con un solo corollario: che il mondo è rappresentazione di una rappresentazione. “Riteneva che era più esaltante ridire che inventare”. Però, se vogliamo sentire qualcosa che ci fa sussultare per la sua novità, a proposito di parole abusate o impossibili come tecnica o bello o bene, apriamo le pagine di questo libro... E ricordiamo: “La filosofia genera mostri e non toilettes de circonstance”. © 1990 M.S. – Adelphida: DELL'INDIFFERENZA IN MATERIA DI SOCIETA'C'è un idolo dinanzi al quale i contemporanei, anche delle più opposte convinzioni, si mostrano bigotti: la società. Tutto viene ricondotto alla società quasi fosse la barriera ultima, oltre la quale non si distingue ciò che pure sarebbe forse più essenziale: la vita e la morte, il bene e il male, la felicità e l'infelicità. Come dando licenza a una furia a lungo repressa (“Come si pronunciò un tempo, con orrore, ‘stato di natura’, così mi trovo a dire, con pari orrore, ‘stato di società’”), Sgalambro ha voluto, con questo pamphlet, scendere in mezzo alla “società” di cui tanto si parla per analizzare di che cosa è fatta. Sferzante, caustico, dichiaratamente provocatorio, ha così enunciato, con argomenti lucidi e appuntiti, le ragioni del suo dissociarsi da un amalgama politico-sociale dove la ricerca ansiosa della mediocrità va unita al desiderio di disprezzarla, in un circolo vizioso che permette di garantirsi con poca fatica una immeritata buona coscienza. La forma è diretta e bruciante, ma in filigrana si riconoscono i lineamenti di una “filosofia solitaria” che molti lettori hanno scoperto con ammirazione in questi ultimi anni. «Vero, la società dovrebbe salvarci dall'universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società?». © 1994 M.S. – Adelphida: DEL PENSARE BREVELa peculiarità del pensiero di Sgalambro non è forse mai apparsa così chiaramente come in questo libro, che si presenta come un “cervello messo a nudo”, una rete di nervi speculativi, un monologo notturno, continuamente spezzato, fatto di rapide accensioni del pensiero, prima che torni alla sua tenebra naturale. Il contrario della verbosità sistematica, che pretende dalla realtà di essere “una volta per tutte pensiero”. Qui invece pezzi sconnessi della realtà diventano pensiero “volta per volta”. L'effetto è sconcertante e dà una scossa salutare. Il “metodo ipocondriaco” spregiato da Hegel come qualcosa che, nel migliore dei casi, potrebbe nascondere un “talento poetico”, ma non speculativo, viene qui rivendicato ironicamente come il “sangue blu” del pensiero. Quanto al “talento poetico”, ne testimonia la tensione della prosa, inconfondibile nella sua mescolanza di pathos e sarcasmo. «Perché mi ostino a definirmi “filosofo” benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai venne meno la mia fedeltà. Per più di cinquant'anni l'ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e reticenze, ho visto esaltazioni e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull'altare e poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l'ho studiato più che quello di duci e condottieri. Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma comi si può imitare l'Idea, ahimè). Sono invecchiato lì dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio dei miei contemporanei. Non ho altro da aggiungere». © 1991 M.S. – Adelphida: DE MUNDO PESSIMO“Nello spirito vi sono ancora continenti da conquistare, scoperte e grandi viaggi” si legge in una delle pagine di questo libro, dove sono raccolti scritti che Sgalambro definisce con brillante sprezzatura “‘parerga’ che precedono, anziché seguire, un sistema ancora inesistente”. E il viaggio cui ci invita – “scalando le vette della metafisica e buttandosi poi giù a capofitto” – è più aspro che mai. Da Sgalambro, d'altra parte, il lettore si aspetta non già un sistema, ma schegge vulcaniche, che qui si presentano sotto forma di brevi trattati: da De mundo pessimo (in cui la vulgata pessimista viene sottoposta a una critica radicale, in modo da sottrarre al pessimismo quel “troppo umano” concernente solo la “vita” e individuare così il pessimum della totalità) al Dialogo sul comunismo (dove si oppone alle concezioni correnti l'idea di un “comunismo metafisico”); da De coelo (in cui Sgalambro torna sui temi che innervano la Morte del sole, il libro che lo rivelò) a Della filosofia geniale (dove, muovendo da Schopenhauer, “si pone il problema se la filosofia non debba essere sottratta all'università e restituita al ‘genio’”) a Contro la musica (nel quale si prendono le distanze dalla tradizione concettuale che fa capo a Bloch e Adorno per gettare le basi di “una critica dell'ascolto”) – per concludere con una Lettera sull'empietismo e su un recente progresso della teologia, che riprende e sviluppa uno dei motivi fondamentali del pensiero di Sgalambro. “Scricchiola in qualche modo l'impalcatura che il mio spirito si è dato in tutta la vita” dice l'interlocutore del filosofo nel Dialogo. E non saranno pochi a condividere questa percezione. «Colui che è stato educato al pessimismo e ne è divenuto il discepolo, e per giunta, in qualità di epigono, intende trasportarlo nel proprio tempo, vede in esso un tema classico, un tema eterno. Sa bene quello che il pessimismo esige e quello che si esige da esso. Egli è il pessimista della verità, se così si può chiamare costui. Il pessimismo onora la verità: questa la tesi generale. Questo pessimista ha seguito il retto cammino dell'onore. Egli ha onorato la verità. Questo è il pessimismo che vogliamo con tutte le nostre forze, egli dice: percorrere il cammino che percorre ogni uomo che si sia accostato alla verità sino al suo nucleo più crudele, là dove essa non è più con lui. Perché la verità è il tutto contro la parte, il tutto contro di te». © 2004 M.S. – Adelphida: DIALOGO TEOLOGICOSgalambro definisce questo scritto “una piccola macchina che smonta il concetto di Dio sino al suo scheletro”. Diviso in due parti – la prima di soliloquio, inteso come “via regia della filosofia”, e qui dedicato a un insolente e vigoroso autoritratto speculativo, che poi si diparte in “falso dialogo” –, questo breve testo sembra uscire dalle pieghe più nascoste della teologia medievale, là dove l'ossessiva attenzione a quella “massa d'essere” che è chiamata Dio aveva fatto crescere le piante avvelenate dell'avversione e della diffidenza: in breve, aveva allevato l'empietà all'ombra della scienza di Dio. Sgalambro rovescia brutalmente alla luce questo remoto e tenebroso passato con un gesto quanto mai moderno, possibile soltanto a partire da Schopenhauer – e che colpisce ben più a fondo le molli filosofie secolari oggi diffuse per il mondo che non l'aspra e antica sapienza teologica. “Ma uomo giusto è chi sa questo: che egli deve ‘annullare’ Dio quotidianamente affinché la misura dell'eterna giustizia quotidianamente si compia”. «Definisco il pensare come l'attenzione per tutto ciò che non è se stessi o l'attenzione per se stessi ma come se non lo si fosse. Per gli equivoci che causa, sono propenso a usare invece di “pensare”, “essere attento” e al posto di “pensiero”, “attenzione”. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare “pensiero” all'uso corrente. L'idea di sforzo connessavi sarebbe ben spiegata dal concetto di attenzione che è implicito in essa. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che le idee e le cose sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la capacità di pensare». © 1993 M.S. – Adelphida: LA CONOSCENZA DEL PEGGIO“All'uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l'ottimo e l'eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima“ dice Platone in un passo del Fedone. Tuttavia, aggiunge Sgalambro, la filosofia si è invece legata strettamente solo al “meglio”, tanto da identificarvisi, e lo stesso Platone non ha affrontato minimamente la conoscenza del peggio che raccomandava. Vi è stato, certo, un “pessimismo che si assunse il compito di avere a che fare col pessimum, ma passando attraverso la sofferenza”, e facendoci pagare i lugubri stati d'animo del pessimista, mentre “solo dopo il dolore” compare il vero pessimismo. Verso quest'ultimo, dunque, non può che condurci un “fanatico della verità” come Sgalambro – e il “metodo pessimistico” sarà lo strumento conoscitivo di chi, come lui, “è stato gettato in pasto al pensiero”. Un metodo che Sgalambro, filosofo asistematico per eccellenza, trasmette qui con il libero flusso di un pensiero erratico capace di suscitare inattese accensioni nella mente del lettore. Ma per tornare sempre, lungo un percorso le cui diversioni compongono in realtà un disegno di grande coerenza, al tema dominante, fulcro di un'opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi. «Il pessimum può essere vissuto con gioia, premio della conoscenza disinteressata… dacché sai cos'è il mondo, ti diverrà più lieve vivervi. Ecco il miracolo del pessimismo». © 2007 M.S. – Adelphida: LA CONSOLAZIONEDa molto tempo la filosofia tace – quasi ne fosse imbarazzata – sull'argomento della consolazione, così come trascura ostinatamente la figura del consolatore. Questi temi, tuttavia, benché spinti per comodità nei recessi più appartati, lontani dalla speculazione corrente, hanno continuato a informare occultamente il pensiero, tanto che forse non sarebbe illegittimo “riscrivere la storia della filosofia moderna dal punto di vista della consolazione”. Se la vetta più alta della morale è la compassione, in virtù della quale un individuo riconosce se stesso nell'altro e agisce di conseguenza, il consolatore non prova che assoluta indifferenza nei riguardi dell'afflitto. Ma è proprio questa indifferenza a permettere il passaggio dalla compassione alla consolazione: “A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare”. Al pari del cinico seduttore che, freddo come un rettile, finge l'amore dicendo ed eseguendo esattamente tutto ciò che schiude il cuore, così il consolatore mima la bontà con gesti artefatti. Le parole, le carezze di entrambi sono posticce, di cartapesta, nondimeno assolvono il loro compito, perché “c'è un inganno di cui, primo fra tutti, si rallegra mestamente l'ingannato”. In questo libro piccolo e denso, che ha la struttura di un trattatello, il pensiero viene indagato come dai grandi seicenteschi venivano indagate le passioni: nei suoi moti segreti, nella sua miseria e nella sua grandezza. Alla fine del percorso, che attirerà chiunque preferisca i sentieri aspri ai confortevoli itinerari accademici, il consolatore apparirà dunque “un truffatore, ma in senso superiore”, e la consolazione si rivelerà come il contrassegno di quell'“età del gesto” preconizzata da Kant in cui, esaurite le risorse dell'agire, non rimarranno che le virtù taumaturgiche della parola. «All'uomo bisognoso di consolazione, cui improvvisamente è venuto a mancare qualcosa di essenziale per la sua vita, o qualcuno che fino a un momento prima era presente e gli parlava con caldi accenti, le parole del consolatore restituiscono ciò che è venuto a mancargli. Dapprima esse si limitano a evocarlo con semplicità – l'amore ormai finito, l'amico morto, la felicità fuggita… –, ma se raggiungono l'acme separandosi severamente da ogni evocazione idolatrica, non essendo altro che parole, per un breve momento egli è consolato. L'edificante ha agito. Il prodigio è questo: laddove vi fu una presenza viva e reale, il cui cuore batteva col suo, che aveva stretto con passione tra le sue braccia, ora vi sono solo parole, eppure, ecco il prodigio, di quella presenza non sente più la mancanza. Se la consolazione riesce a restituire all'afflitto ciò che egli perse, e glielo restituisce con comuni parole, allora io metto l'edificazione più in alto di tutto, e mi umilio ai suoi piedi». © 1995 M.S. – Adelphida: LA MORTE DEL SOLE In questo libro parla un filosofo di cui non sapremo fino all'ultimo a quale scuola appartenga. Ma subito percepiamo il suo timbro: è un pensiero che ci offre il suo stile prima ancora dei suoi concetti. Vagando fra gli imponenti relitti della storia della filosofia, Sgalambro risale alla celebrata conversione del “vero” nel “certo”, che si compie con Descartes – e, con freddezza protocollare, riconosce nei passi successivi la graduale cancellazione dell'“unilateralità scandalosa del vero”. Insieme al “vero”, nel suo baldanzoso avanzare, la filosofia progressiva tendeva a sbarazzarsi del “mondo”, in quanto origine di quel terrore da cui la filosofia era nata e che ormai la macchiava soltanto. La transizione dall'illuminismo all'idealismo appare allora come il passaggio da un tentativo di guardare il mondo senza terrore a una risoluzione di abolire il mondo stesso, mentre il terrore intanto continua a crescere. La “prassi” infatti – ora adorata come un tempo l'Uno – non riesce a nascondere la visione che, a poco a poco, la scienza svela: quella dell'universo disincantato come di un immane mostro, acefalo e caotico, avvicinabile soltanto nell'ostile linguaggio dei numeri. Da allora, scrive Sgalambro, il “lutto matematico” avvolge le cose. Così si sviluppa, nella seconda metà dell'Ottocento, l'ossessione della “morte del sole”, condannato dalla termodinamica, “spietata erede dei problemi della ‘salvezza’”. La morte termica prende il posto dell'eschaton redentore. Il fantasma del sole in agonia si avventa da un futuro cosmico sul secolo della civiltà trionfante e lo paralizza in un tableau vivant della catastrofe. Per Sgalambro, questo quadro diventa lo sfondo di un magistrale tentativo di morfologia della décadence. Il suo è un procedere per incursioni rapidissime, non solo fra le grandi ombre di Kant, di Spinoza, di Schopenhauer, “voce dell'ultima filosofia cosmologica dell'Occidente”, ma in tutto il frastagliato terrain vague del moderno, dove troviamo – quali altrettanti guardiani della soglia – Poe e Proust, Warburg e Simmel, Benn e Spengler. Sulle loro pagine, come su una Vanitas ingombra di oggetti abbandonati e lucenti, si posa lo sguardo complice dell'allegorista saturnino. Mentre con asprezza, con staffilante sarcasmo Sgalambro osserva il motore indefesso del nostro mondo, la macchina anonima di un “pensiero, che da quando è il più reale – in quanto fare, creare, produrre – non ha più realtà” e oggi assiste alla più desolata delle scene: non già alla deprecata “crisi dei valori”, ma al loro squallido realizzarsi. A quel pensiero si contrappone, prima ancora che un pensiero avverso, un'altra percezione: quella del Roderick Usher di Poe, immagine di coloro “ai quali qualcosa di improvviso ha restituito il senso della realtà” e nell'indistinto fruscio della città mondiale odono l'eco del rumore originario: “La filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia eterna ha inizio col terrore”. La morte del sole apparve nel 1982 e fu allora definito da Rolando Damiani “un libro nuovo e incontaminato, di un pensatore duro e lucente come diamante, che guarda la verità in viso senza infingimenti né calcoli, non aspettandosi nulla e niente avendo da perdere”. © 1982-1996 M.S. – Adelphida: NIETZSCHEQuesti frammenti catturano il lettore e lo trascinano in un universo personalissimo, affollato di rimandi letterari e filosofici, di immagini lunghe un solo verso, di incanti improvvisi e altrettanto fugaci innamoramenti, di parole e di suoni, di lirismo e ironia in un continuo e apparentemente inesauribile vortice musicale. La lettura di Nietzsche è un'esperienza di immersione totale: la musicalità dei versi, l'evocazione continua di suoni, personaggi, il fascino di un mondo incantato e cristallizzato in un'immagine di nervosa armonia fanno di questo poema sull'ambiguità dell'esistere e su coloro che hanno tragicamente pensato tale ambiguità, un unicum nel panorama culturale italiano. Come si può parlare di Nietzsche in un “saggio” o in una comune “storia del pensiero” oppure come nella “monografia” del figlio del sacrestano di Messkirch, vero monumento a se stesso, dove le campane del padre percuotono assordanti ogni pagina del figlio? C'è invece modo migliore per parlare di Nietzsche di quello della “poesia”? Non una poesia compassionevole, s'intende. Ma una poesia brutale come avviene quando non si incontrano questi o quegli accidenti del sentimento, ma la durezza di due che pensano. (Eppure la pietà sopravviene per entrambi, in chi sta tentando di “cantare” le loro vicende… Ma essa si strappa alle viscere e non al fazzoletto da naso). In À la recherche du temps perdu, Proust scrive: “Tutto è stato inventato da me secondo la necessità della dimostrazione”. La poesia è una delle tante strategie della invenzione per arrivare a un punto convenuto. Il punto convenuto qui è Nietzsche. Per un momento egli non è “qu'une figure rithmique vide, ou remplie de syllabe vaines” (Valery, Au sujet du “Cimitière Marin”). Nel gesto laringo-buccale, s'incarna. Infine daremmo forse retta a una poesia su Nietzsche che non conducesse alla pietà? Al Signore delle Mosche elevo/una preghiera (io molochista/dichiarato): Che Nietzsche sia/salvato! M.S. © 1998-2006 M.S. – Bompianida: QUATERNARIOQuesto racconto si svolge tra piccoli trattati, aforismi e pensieri “oscuri”. Sullo sfondo si intreccia una icenda tra il “narratore” e uno spirito affine. L'autore, in questo libro, rievoca la propria visione del mondo, per sensazioni ed emozioni, attraverso una scrittura appassionata. (Aveva appreso che delle cose irrazionali non vi è sistema ma narrazione. Ma questo non gli bastava. Egli adorava i concetti e attraverso essi avvertiva gli odori delle cose e le loro quintessenze e sentiva scorrere nel suo sangue la loro potenza e avrebbe pure potuto chiamarle per nome una per una… I concetti erano la sua anima e attraverso essi filtrava anche i suoi umori. Gli individui sono dei concetti incarnati. Che mi importa di possedere la loro carne, usava dire. L'immagine di un individuo di cui niente si può sapere se non tramite la sua psicologia gli sembrava invecchiata e legata a una immagine diveniente dell'uomo. Laddove invece l'individuo è compiuto e non può essere più oggetto di psicologia ma di concetto. Questa era la sua convinzione. Non aveva alcun timore di avere dei pregiudizi. Vedeva Parigi come un insieme di idee. Pensare in questa città è pensarla, diceva. E per un certo tempo gli dedicò il suo io). M.S. © 2006 M.S. – Il girasoleda: TEORIA DELLA CANZONE La sfida, in filosofia della musica, non nasce dal confronto sdegnato tra arie, rondò, lieder e canzonacce… “Ma tra ciò che si pretende eterno e ciò che si sfascia la sera stessa”. Se la cifra di questo secolo è la brevità (intesa come morte dello Spirito e dei suoi attributi “eterni”) solo la canzone riesce a inseguirla e a raggiungerla, essa di brevità se ne intende. Per essere attendibile la “filosofia della nuova musica” deve fondarsi sulla musica cosiddetta leggera: “la musica leggera sarebbe costruita con gli avanzi della musica”, nella Teoria della canzone “non si vuole scaricarla di questi attributi, ma capire perché essa vuole essere proprio così”. La canzone è un occhio puntato contro questo secolo: “come uno gnostico il batterista… punta l'arma e spara direttamente contro il cielo… Dio ci pesta a dovere e noi gli cantiamo in faccia”. Con questo sorprendente “libretto” Sgalambro torna a quel pensare breve in cui è maestro. Aforismi tesi come lucidi plettri di chitarra. La “filosofia della nuova musica” abbandona i polverosi salotti e si butta nella mischia di un concerto rock. Proprio così: leggendo questo libro mi è sembrato di vedere, come durante un'esecuzione di Bach, un elegante signore tra il pubblico fare un cenno a se stesso con la testa, spolverandosi i pantaloni, alzarsi in piedi, e tirare fuori una chitarra elettrica. Ottavio Cappellani Opere (libri) Trattato dell'empietà “Osservare freddamente Dio – caldamente, lo fu già abbastanza”. Per questa impresa, che è già in sé un'empietà, Sgalambro si è scelto come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Qui, come ancora in Spinoza e in Schopenhauer, Dio torna a essere il mondo nella sua profonda estraneità, nella sua avversione al soggetto, che attacca fino a ucciderlo, nella sua controfinalità. Mentre oggi la filosofia dei disincantati è diventata almeno altrettanto consolatoria della filosofia dei bigotti, e per essa, alla fine, tutto va bene perché tutto è ugualmente infondato, il fosco sguardo del teologo fa risorgere il mondo quale alterità nemica, quale rocciosa resistenza al pensiero, quale catena delle cause che stringe in una morsa, “come una costrizione fisica”. Per praticare questo superiore “cinismo teologico” non occorre devozione, fede e sentimento, ma la capacità di guardare attraverso un vetro tentando di vedere il vetro, l'arte di “pensare contro se stessi”, di avvolgersi nella vita della mente come nell'unica vera che ci sia concessa. Si traccia così una teologia non religiosa, oggi possibile “come ieri le geometrie non euclidee”. E le figure del passato – si tratti di Proust o di Plotino, di Warburg o di Mauthner, di Renan o di Hegel – vi appaiono impigliate in un nuovo ordine di rapporti, che è illuminante. Un pensiero di questa specie non può che essere solitario all'estremo e risultare impenetrabile per chi è fedele all'“oscurantismo dell'illuminismo”. Ma la superba asprezza di questo libro apparirà salutare a chiunque rifugga quei “tiepidi” che costituiscono gran parte della filosofia contemporanea. Qui vi è il tentativo di costruire una teologia pubblica – anzi, se ci è concesso di mutuare uno stilema a una grande memoria, una teologia pubblica europea. Se l'epoca della teologia appare conclusa, o se ne trascina appena l'ombra, ciò è avvenuto perché gli stinti intelletti che se ne sono occupati (a parte alcune eccezioni) portano in loro il tarlo che aveva roso la disciplina. Come se questa avesse dovuto seguire le sorti della religione a cui la legava la subalternanza. La stessa caduta della religione, ormai solo oggetto di fede e di speranza – squallidi sostegni del nostro incerto destino –, doveva favorirla e sbarazzare il campo da ogni equivoco. Che Dio esista è solo un fatterello sinistro. Niente di più. (Dato come vanno le cose, bisognava aspettarselo). M.S. © 1987-2005 M.S. – Adelphida: TRATTATO DELL'ETA'A partire da Cicerone, il tema della senilità ha sempre ispirato opere provvidamente consolatorie o delicatamente elegiache. Nella nostra epoca, votata all'idolatria della giovinezza – reale o apparente –, si preferisce eluderlo o ignorarlo. In questo aspro, spregiudicato Trattato dell'età Sgalambro ne fa invece il centro di una vibrante riflessione sul perenne disgregarsi delle cose arrecato dall'opera del tempo – poiché la vecchiaia è il “tempo duro e orribile, dove però si annida, assieme ad altri, il segreto dell'età”. Implacabile osservatore, incisivo e corrusco nella potenza delle immagini, Sgalambro sviluppa in poche, densissime pagine – sovvertendo molti fondamenti della speculazione corrente – le linee di una “metafisica dell'età” che diventerà lo specchio in cui si riflette la temibile sembianza della vecchiaia, oggettivazione dell'essenza distruttiva del mondo. «Non v'è dunque che una sola età. Oppure, come possiamo anche dire, tutte le altre età sono faccende da psicologia. Solo la vecchiaia è in sé. Soltanto essa non chiede meno di una metafisica per essere trattata adeguatamente». © 1999 M.S. – Adelphi-

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