MARIO MOLINARI SCULTORE profile picture

MARIO MOLINARI SCULTORE

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myspaceeditor.itMario MolinariIl padre era un giovane gagliardo con la lancia in resta. La madre lavava i piatti separatamente dalle mutande e, spolverando sospirava. Il fratello permaneva nei suoi probi impegni. La sorella vive a Roma. Mangiavano minestrone, non si mettevano le dita nel naso, avevano domestiche e una zia in comune: Olga. Dopo qualche piccolo furto di lieve moneta dalla tasca paterna, schiaffi, biciclette, scarlattine e semi-di-lino fu Scientifico, a Varese; ma non crede nella scuola e neppure nelle istituzioni in genere. Il padre che dirigeva cose e case di carta l’avrebbe voluto navale a Livorno, fu invece alpestre ad Aosta: pioveva, faceva freddo e mancavano le scarpe e i grembiuli. Non provava interesse per gli archibugi. I Capitani salutavano, stringevano la mano e dicevano: il nemico è là. Tutti continuavano a leggere la lettera della fidanzata e chi aveva finito riprendeva daccapo. Nella casa di carta, dove il padre dirigenziava, entrò per manutenderglivi Impianti Nuovi. Furono anni di mani. Ma la scarpa cercava il suo piede. Linee e forme che non fossero bielle e pulegge, riso e cellulosa. Vagando per le vie di Torino trovò un campanello accademico e lo pigiò. Gli rispose un bidello, gridando: pontecorvo! Era abituato alle inventive e non se ne adontò. Ma non sapeva dove andare a parare. Buongiorno, vorrei imparare. E il monocolo beffardo lo fulminò di luce. Furono tre anni a cavallo fra la casa di carta coazzese e, insieme con qualche altro sbandato che è finito sotto i ponti, lo studio serale monocoluto torinese. Dipingere o scolpire era il problema. Con i piedi in due staffe stette anni tre. Poi, era il 1967, calzò scarpe di vento e lasciò la casa di carta: passato ogni incarico, si trovò sulla spiaggia, anzi nel deserto a fare da sé. A Torino, dove, come si sa da fonte autorevole quam qui maxime, c’è il Demonio, il fiume si era messo a rodere gli argini e mangiava i suoi giardini; ma lui godeva perché sapeva che avrebbe avuto altri giardini, anzi più nuovi. Di là dal fantastico si radunarono, insieme con Ponte Corvo (che, lo aveva capito, non era un’invettiva bidellare) Alessandri, Abacuc, Colombotto Rosso, Camerini, Macciotta. Tanti chicchirichì. Voleva radunarsi anche Dino Buzzati, che, chissà, avrebbe scritto il Cartello. No, tu no. E non ci fu Cartello, ma Rivista, Surfanta, con risonanza vasta; non si proponeva il che cosa, ma il come: un modo di vivere; ognuno per sé e, per tutti nel rigore, sia pure con il languore del panino al Valentino e il timore del campanello (fosse mai un creditore) Genio e Sregolatezza. Ma l’anelito bidimensionale, sognato e agognato, tardava, gestazione di difficile epifania. E fu rame. Urli memorizzati da Licide, silenti offerte agamennoniche di Ifigenie senegalesi, corpi ieratici come i muri di Coventry e di Boves, Pinocchio a Hiroshima. E l’Uomo? Nell’onda crudele di un andi e rivieni che si attarda ad essere, è puleggiato, polluzionato, assordato, televisato, anagrafato, computerizzato. Bisognava ieraticizzare la dignità di questa essenza, di questo avvilito vincente: e sono i teatrini, cioè noi nella nostra abituale scenografia con il desiderio di domniare e di evaddere: grandi sacerdoti inchiodati alle poltrone, poltroni che si dimenano, racchiusi in cassette vetrate e in un mare di bottoni colorati, occasionalmente forniti dal surplus di una pregiata Ditta, in un tentativo di esplodere dal grigiore del mezzocalzettismo di una città con il cielo linfatico. Ma il grigio può vincere. E fu alluminio. Bidimensione, bidimensione: centomila cavalieri fissati in cinquanta centrimetri quadrati, che caricano in quadrato, olocausto bidimensionale contro la stupidità. Ricercare sulla quanrta corda: la terza dimensione non esiste se non come supporto: bisogna liberarsene. Eliminare il barocchismo, entrare e restare nell’essenziale. E fu plexiglas. Bucefalo e Baardo, immobili in un impulso maggiore che nel Gattamelata, che nel Colleoni. Caduchi ed eterni nella loro colorata trasparenza. Apparire è falso, trasparire dubbio. Ed è legno. Gelidamente marmoreo nei ritratti di donne come ad Abu Simbel e Quarnaka; rossi e neri delle cuspidi cilindriche nei progetti di città d’altri mondi, indomiti meandri dove gli uomini si smarriscono; aerei a reazione per guerre che non si faranno, anitre con tappo. Ma il colore colora? Il cemento grigio e grezzo si espande in altura, mastodontizzando pompieri belgi. Colorare, colorare e con i colori determinare i volumi: angeli che ascendono alla ricerca del Divino; divine colombe che calano fuoco negli animi di apostoli pentecostali. Il rosso cerca il verde, i tramonti assumono la veste di aurora e, visti dall’altra parte, dall’orizzonte rigenerano i soli che ti sprizzano negli occhi i ventiduemila raggi della loro calorifica (o colorifica?) sapienza. E’ sera. Dove vai? Vorrei andare in un posto lontano e sconosciuto, dove non si sapesse nulla di me, dove potrei ricostruirmi identico a qullo che sono. Là, forse nell’infinito, dove la potenzialità si trasforma in potenza. Là dove la potenza, certo, è morte. Torino, Ottobre 1988 Aldo Assetta myspaceeditor.it

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Ciò che mi colpisce di più delle sculture di Mario Molinari non è la stranezza dei personaggi, né l’intensità delle loro espressioni, né l’aura stregonesca da cui sono scaturiti (è chiaro, per esempio, che nel loro regno celebrano giornalmente sacrifici umani), né la singolare, raffinata e insieme rozza tecnica usata per metterli al mondo, ma la loro paurosa immobilità. Stupidaggine, mi si dirà: per definizione tutte le sculture non si muovono. È vero, però alcune statue sono più immobili delle altre. E quanto più sono immobili tanto più forte è un certo loro incanto tenebroso. Esempio: le statue dell’antico Egitto sono senza dubbio più immobili che le statue della grande Grecia. E non dico che per questo siano più belle ma certamente contengono una maggiore dose di mistero e di illusioni inquietanti. Il motivo esatto di ciò non lo saprei dire, ma sento che è proprio così (forse perché sono più vicine alla Morte?). Ci sono stati luoghi ed epoche in cui era vanto degli scultori di esprimere, anzi realizzare il movimento, di discostarsi al possibile appunto dalla immobilità. Ed erano sempre periodi di relativa decadenza. Ma in che modo Mario Molinari ottiene tanta fissità? Bisognerebbe chiederlo a lui e può anche darsi che egli stesso non sarebbe in grado di rispondere. Si tratta di un suo segreto difficilmente comunicabile. Anche quando gesticolano, camminano, cavalcano, vanno a caccia o pedalano la bicicletta, i suoi “idoli”, come qualcuno non a torto li ha chiamati, sono cristallizzati per l’eternità. Perfino certi minuscoli e maligni gnomi che stanno in agguato con pessime intenzioni entro la cassa toracica o l’addome di alcuni personaggi (vedi “Testa da giogo”, vedi “La spia”) non accennano in nessun modo a velleità di moto; benchè, tra le svariatissime proliferazioni molinariane, siuano le più inclini al tradimento. Bisogna aggiungere che a intensificare allo spasimo la “pietrificazione” delle sue creature, Molinari si è trovato costretto. Con tipi simili, la prigione dell’immobilità doveva essere molto più severa dell’usato. Sacerdoti, guerrieri, deità, sirene, giovanette, cavalieri, amanti, portalettere, bambini, giocolieri provengono, come si è detto, da un paese dove è in auge la magia nera e si svolgono fatti preoccupanti. Molinari ha dovuto, per elementari esigenze di ordine pubblico, inchiavardarli col rigore massimo. Guai altrimenti. Se il discobolo di Mirone o il David di Michelangelo all’improvviso prendessero vita, non accadrebbe niente di grave. Ma io non vorrei esserci il giorno che le statue di Molinari, Dio ne guardi, si mettessero inopinatamente in moto. Qualsiasi catastrofe potrebbe succedere. Il gigantesco occhio di “G.R.” vi incenerirebbe al primo sguardo. Presentazione alla mostra tenuta nel 1967 Dino Buzzati

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