DECANTER E' UNA RIVISTA TRIMESTRALE CHE AFFRONTA I TEMI DELLA POLITICA E DEL DIBATTITO CULTURALE IN BASILICATA INSERENDOLI NEL CONTESTO PIU' GENERALE RELATIVO AL RUOLO DEL MEZZOGIORNO NELLA VITA NAZIONALE. LA RIVISTA E' STATA FONDATA NEL MAGGIO DEL 2004.
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L'ULTIMO NUMERO:
EDITORIALE:
"Questione morale". Compito della politica non dei magistrati
di Piero Di Siena
Non erano nemmeno trascorse quarantotto ore dall’apparizione di Salvatore Margiotta nella trasmissione di Porta a Porta, dedicata al rapporto tra politica e affari e alla bufera che sta investendo il centrosinistra nel Mezzogiorno, nella quale tra i tanti argomenti usati dal parlamentare lucano per dimostrare l’inconsistenza delle indagini fatte negli ultimi sette anni dal viceprocuratore Woodcock vi era quello che nessuno dei politici indagati era mai arrivato al processo, che veniva formalizzato il rinvio a giudizio per Iena 2 di Pasquale Lamorte e Antonio Luongo, e con quet’ultimo di alcuni uomini chiave dell’apparato dei Ds, all’epoca dei fatti contestati collaboratori strettissimi del deputato del Pd.
Naturalmente un rinvio a giudizio non è una condanna. Come questo episodio non toglie nulla alle buone ragioni di Margiotta quando si lamenta del ricorso agli arresti nei suoi confronti in ragione di indizi effettivamente molto labili e di incerto fondamento. Margiotta ha avuto ragione anche di ricordare che dal 2001 sono state presentate alla Camera dei Deputati solo sette richieste di autorizzazione all’arresto di parlamentari, di cui quattro hanno riguardato deputati della Basilicata. Se si tiene presente – ha argomentato Margiotta – che i deputati della Basilicata sono sei su oltre seicento, se ne dovrebbe desumere che nella nostra regione vi sia una concentrazione di criminali dediti alla politica che non ha eguali nel resto del Paese. Insomma da parte di Woodcock un certo accanimento c’è stato. E non basterà il rinvio a giudizio di Lamorte e Luongo per fugare quella sensazione che circola nell’opinione pubblica della Basilicata sul fatto che, per quel che riguarda le iniziative di Woodcock, tutto sia risolto sempre in un pugno di mosche, nonostante tutti i procedimenti da lui avviati si siano chiusi con la condanna (a parte i dirigenti politici) della maggioranza degli indagati.
Bisogna, tuttavia, chiedersi perché magistrati come Woodcock, e come De Magistris, interpretano la loro funzione come se fossero in guerra. È sbagliato, alla fine ciò va a discapito dell’indipendenza del ruolo della magistratura, ma è così. E prima di abbandonarsi a trite recriminazioni sull’irresponsabilità e lo strapotere della magistratura, bisogna interrogarsi sul perché questo sia potuto accadere.
Mettiamoci solo per un attimo dal punto di vista di questi magistrati che si sentono, a torto o a ragione, in trincea. Se lo facessimo scopriremmo che essi sono costretti ad agire in contesti nei quali la loro iniziativa ha dovuto scontrarsi con mille ostacoli e inerzie di ogni tipo, presenti all’interno della stessa magistratura, negli organi di polizia, nei rapporti di “buon vicinato†che settori di essi intrattengono con la politica. Ci sarà pure una ragione per la quale, mentre a Potenza Woodcock “impazzava†con le sue inchieste, a pochi chilometri di distanza nel Tribunale di Melfi, nella cui giurisdizione da un quindicennio è in corso una guerra di mafia costellata di atroci delitti, su nessuno di essi si è riusciti ad arrivare non a una condanna ma nemmeno a un rinvio a giudizio? E che per gettare luce sul sin qui misterioso assassinio a Melfi dell’avv. Lanera si sia dovuto attivare proprio Woodcock?
Che un clima siffatto possa alla fine risultare intollerabile per chi pensa di dover garantire legalità e giustizia è comprensibile. Da qui nascono le “spallate†di Woodcock, la sua idea che indagare significhi gettare le reti a ampio raggio perché alla fine qualcosa rimarrà nelle loro maglie. Ma proprio per evitare che si faccia di ogni erba un fascio, la politica democratica deve affrontare per suo conto le cause che hanno prodotto questa situazione e il sistema di relazioni che hanno indotto a questo, sia pure non sempre giustificato, tipo di reazione da parte di settori della magistratura.
De Magistris ha voluto rappresentare nelle sue inchieste tutto ciò sotto forma di un sistema di potere sottoposto a una “cupola†criminale-massonica di cui sarebbero organicamente parte magistrati, imprenditori, esponenti politici di centrodestra e di centrosinistra. Saranno, con ogni probabilità , anche fantasie. Ma non c’è chi non sappia, tra quelli che conoscono i rapporti politici nella nostra regione, che nell’ambito di quelle che sono state chiamate relazioni “corte†come indispensabile fonte di garanzia del consenso – e che meglio sarebbe chiamare clientelismo – spesso si realizzano relazioni trasversali, in un sistema di potere in cui non conta se si è maggioranza o minoranza, giacché componenti del centrosinistra ne sono notoriamente estranee mentre ne sono parte pezzi dell’opposizione di centrodestra.
Che il clientelismo sia la cifra prevalente dei rapporti tra politica e società in Basilicata è indubbio. La politica è quasi sempre intesa dalla stessa generalità dei cittadini della regione come servizio ad personam. E passi quando questo riguarda la ricerca del posto di lavoro, per sé o il proprio figlio, in un mercato del lavoro che non dà garanzie al di fuori di pratiche di protezione di tipo individuale. Ma quando questo metodo si sposta ai rapporti tra potere politico e professioni, o imprese, che cosa succede?
Salvatore Margiotta, tra le tante cose dette a Porta a Porta, una poteva risparmiarsela. A un certo punto quando Massimo Brutti, commissario del Pd in Abruzzo, ha detto che era il momento di introdurre una netta separazione tra politica e amministrazione per evitare che la politica diventasse succube degli affari, Margiotta ha affermato che questo da tempo è il costume della classe dirigente della Basilicata.
Ora è noto a tutti in Basilicata che Margiotta è un valente professionista, ingegnere e professore universitario, il cui studio negli anni della sua ascesa in politica ha svolto un’intensa attività di progettazione con il sistema delle amministrazioni locali della Basilicata. Sia chiaro: tutto alla luce del sole, nell’ambito della legalità , tutto legittimo e secondo le regole. Ma come si fa a dire che in Basilicata si opera una netta distinzione tra indirizzo politico e gestione degli interessi se tutta la sua biografia è un esempio di tale commistione? La cosa singolare è che nessuna delle forze politiche o dei settori dell’opinione pubblica che aspettano dall’esito delle inchieste di Woodcock la soluzione della “questione morale†in Basilicata, ha mai sollevato nei riguardi dell’attività professionale di Margiotta una sola obiezione.
È il sintomo di una subalternità culturale di quelle forze che attendono la soluzione del problema dagli esiti dell’attività giudiziaria.
È dunque, in un certo senso, il momento di lasciare Woodcock al suo destino. Di essere vigili che egli come tutti i magistrati possa continuare a esercitare il suo mandato al di fuori di ogni condizionamento, ma di smetterla di attendere che le sue inchieste dettino l’agenda politica della regione.
Una “questione morale†si pone al di là della rilevanza penale degli atti che essa produce. Ed è il momento che la classe dirigente che ha guidato la Regione in questi anni ne prenda atto e si assuma le sue responsabilità . Del resto, di fronte allo sfascio delle forze politiche che essa rappresenta, se non ora quando?
IL PUNTO:
Le campagne nel '68. La rivolta delle arance a Fondi
di Alfonso Pascale
L’Associazione culturale â€Forum delle Ideeâ€, presieduta da Domenico Di Resta, ha curato la pubblicazione del volume “La rivolta delle arance. Fondi 3 Febbraio 1969†dedicato ad una vicenda di 40 ani fa, quando migliaia di contadini, provati dalle conseguenze di una grave crisi di mercato di questo agrume, occuparono la linea ferroviaria Roma-Napoli e si scontrarono violentemente con le forze dell’ordine. Il libro è il primo di una collana dedicata alle “Pagine di storia della nostra comunità †con l’obiettivo di ricostruire eventi che hanno segnato la vita politica e sociale delle popolazioni della provincia di Latina.
Il volume si compone di uno studio di Antonio Di Fazio sul contesto economico e sociale nel quale maturò ed esplose la rivolta, alle caratteristiche e contraddizioni del movimento e ai suoi esiti. Ad esso seguono gli articoli comparsi sulle cronache locali del Messaggero e del Tempo e sulle pagine nazionali de l’Unità e il resoconto del dibattito alla Camera dei deputati a seguito delle risposte del Ministro dell’agricoltura Valsecchi e del Sottosegretario all’interno Salizzoni alle interrogazioni che sulla vicenda erano state presentate da diversi Gruppi parlamentari. La pubblicazione si chiude con un report redatto subito dopo i fatti dalla Sezione comunista di Fondi, dalla Federazione di Latina e dal Gruppo parlamentare del Pci.amy reid mr big dicks hot chicks
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waningmoon gothic personalsLa vicenda di Fondi si collocava in una fase decisiva dello sviluppo di una città e di un territorio profondamente segnati da trasformazioni epocali che influenzavano la vita dei cittadini, le loro attività economiche, l’uso degli spazi e delle risorse agricole e ambientali. Il disagio tra la popolazione era enorme ed esplose in forme rivoltose per l’incapacità delle classi dirigenti dell’epoca di governare la modernizzazione, che da pochissimi anni si era prodotta, ma che incontrava una serie di difficoltà in assenza di una cultura imprenditoriale tra i ceti produttivi e di una cultura di governo nelle forze politiche e sociali. Era dunque la spia di un processo ancor più ampio che avrebbe travolto di lì a poco il sistema politico in una crisi che si è trascinata fino ai giorni nostri.
Oggi la comunità di Fondi è molto provata a causa di fatti che non si addicono alla storia di una città dalle grandi tradizioni culturali e politiche: il governo potrebbe, infatti, sciogliere il consiglio comunale per infiltrazione mafiosa a seguito della richiesta in tal senso avanzata da una commissione d’indagine insediata dal Prefetto di Latina. Anche il presidente della Regione Lazio, Marrazzo, ha chiesto al premier Berlusconi di affrettare i tempi dello scioglimento.
Riflettere sulle vicende di 40 anni fa è, pertanto, utile per comprendere come si siano prodotti quello sfilacciarsi del tessuto sociale, quell’allentarsi del senso civico e quell’appannarsi della moralità pubblica da cui derivano i fatti di oggi.
Per questo motivo, è utile collocare la rivolta di Fondi nella più ampia sequenza di moti sociali che nel biennio 1968-69 interessarono l’insieme delle campagne italiane: dalla contestazione degli aderenti alla Coldiretti nei confronti del loro presidente Bonomi, in occasione della Fiera agricola di Verona, alla manifestazione dei 60 mila a Roma, indetta dall’Alleanza dei contadini; dalle cinque giornate di lotta dei viticoltori del Monferrato e delle Langhe agli scioperi bracciantili della Sicilia, del Lazio e della Sardegna contro le zone salariali; dalla rivolta di Fondi a quella di Battipaglia in conseguenza della crisi dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli; dalle manifestazioni per la riforma dei patti agrari nelle Marche e in Toscana agli scioperi zonali in Basilicata per l’irrigazione e la riforma del collocamento.
La mobilitazione delle campagne assume caratteri ribellistici ed evidenzia una difficoltà dei partiti e delle organizzazioni di rappresentanza ad incanalare la protesta in strategie di cambiamento credibili. Le forze di governo e gli organi dello Stato rispondono, infatti, con il pugno di ferro. I contadini che occupano ferrovie, nodi stradali, comuni vengono caricati brutalmente dalle forze dell’ordine. Ad Avola, in Sicilia, due braccianti sono uccisi e 50 feriti dalla polizia. A questo proposito, lo storico Giuseppe Giarrizzo sostiene che lo scontro sia stato voluto per anticipare scelte maturate in settori decisivi dell’apparato statale e della politica italiana, incapaci di fronteggiare il conflitto sociale con politiche di riforme. Si è trattato, in sostanza, di prove generali della strategia della tensione.
Cos’era successo di così eclatante, a metà degli anni Sessanta, da spiegare un conflitto sociale così acuto, che non interessava solo le università e le fabbriche, come erroneamente riportano i libri di storia e recenti rievocazioni cinematografiche e letterarie del ’68, ma in modo così ramificato e significativo anche le campagne?
L’Italia usciva da una grande trasformazione avvenuta in modo repentino. Solo dieci anni prima, nel 1958, gli occupati in agricoltura avevano ceduto il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria e si era avviato quel boom economico, che aveva indotto un mutamento antropologico della società italiana. Solo diciotto anni prima, nel 1950, era stata varata la riforma agraria che aveva dato il colpo d’ariete a due processi economico-sociali fortemente intrecciati: l’industrializzazione del paese e la formazione di una proprietà diffusa della terra, su cui si è progressivamente innestata un’agricoltura moderna.
Stava mutando il volto dei territori rurali. Tra il 1951 e il 1971 il mondo rurale perdeva 4,4 milioni di agricoltori, ma guadagnava 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani che non si trasferirono nelle città e restarono nelle campagne.
Ma alla rottura sociale si accompagnava quella territoriale, coi processi di specializzazione e intensificazione produttiva, il consumo sconsiderato di aree agricole e l’incuria del paesaggio.
Mutava il volto del Centro-Nord. La meccanizzazione agricola espelleva manodopera ed accresceva la produttività del settore. Ma lo spopolamento delle zone montane e collinari dell’Italia settentrionale e centrale creava, nelle stesse regioni dove si era verificato, nuove attività e nuova ricchezza in settori produttivi diversi dall’agricoltura.
Mutava il volto del Sud. Tra il 1955 e il 1970, tre milioni di persone, per lo più uomini e giovani, tutti o quasi provenienti dall’agricoltura, spostarono la residenza dal Mezzogiorno in un comune settentrionale, senza lasciare in cambio nulla dietro di sé nelle regioni d’origine. Tuttavia, l’esodo rurale costituiva nel Sud il motore per introdurre le innovazioni della moderna tecnologia agricola. Inoltre, con il completamento della bonifica e l’irrigazione di oltre 500 mila ettari, tra il 1950 e il 1970, la produzione agricola meridionale si raddoppiava e cresceva ad un ritmo superiore a quello del Centro-Nord.
Una trasformazione di così ampie proporzioni e ad un ritmo così accelerato avrebbe richiesto classi dirigenti capaci di leggere i mutamenti, superare le divisioni ingiustificate e che avevano a pretesto la “guerra fredda†e adeguare le forme di partecipazione alla voglia di protagonismo di nuovi soggetti sociali.
I partiti e le organizzazioni sociali si erano dimostrati senz’altro all’altezza della propria funzione nazionale, nel dopoguerra, quando avevano provveduto a educare le masse alla democrazia e ad avviare la costruzione dello stato sociale. Ma si rivelano ora del tutto inadeguati a governare la modernizzazione.
Non percepiscono, ad esempio, il valore politico e culturale del ruolo avuto dalla riforma agraria e dalla edificazione delle grandi opere infrastrutturali e irrigue. Pochi sanno leggere il significato delle migrazioni interne come presupposto e conseguenza della nascita di un’agricoltura moderna su culture e valori che non sono affatto scomparse.
Eppure l’assegnazione delle terre a seguito della riforma agraria e le agevolazioni per l’acquisto di aziende agricole avevano coinvolto oltre due milioni di ettari. Ma l’accesso alla terra da parte dei coltivatori non era stato un fattore di identificazione nazionale. La sua distribuzione era, infatti, avvenuta sotto il controllo di una parte politica contro un’altra, nella logica ferrea della guerra fredda, e non aveva creato vincoli di appartenenza alla nazione che aveva mobilitato le risorse per le operazioni di riforma e gli acquisti agevolati di terra.
Altrove l’accesso alla terra è storicamente alla base delle democrazie occidentali: proprietà coltivatrice e ordinamento repubblicano sono state le due facce della stessa identità nazionale.
Nel caso italiano, l’aver impedito agli agricoltori di svolgere un ruolo autonomo nella società non ha permesso una crescita dell’identità nazionale; il fatto di non aver accompagnato la nascita dell’agricoltura moderna mediante una comune visione politica e culturale ha ostacolato la sua percezione come coagulo identitario.
E’ mancato in Italia un romanzo che fosse l’equivalente di Furore di John Steinbeck, ispirato al dramma dei contadini rovinati dalla crisi del ’29 ed al New Deal rooseveltiano da cui rinacque l’agricoltura americana moderna. E manca un film simile all’omonimo che ne trasse John Ford nel 1940. Romanzi e film di ambientazione agricola, in Italia, hanno riguardato e riguardano tuttora esclusivamente periodi storici precedenti alla riforma agraria degli anni ’50.
Il ’68 ha espresso anche questo disagio, che derivava da un uso strumentale della vicenda agricola, a fini di lotta politica. Da una banalizzazione delle risorse umane spese per edificare l’agricoltura che oggi ci ritroviamo. Da un senso di spaesamento che ha impedito agli italiani di inorgoglirsi per i progressi che si registravano nel settore agricolo.
I partiti e le organizzazioni sociali non hanno saputo leggere gli esiti della modernizzazione agricola che si sintetizzavano in due dati risultanti difformi rispetto alla media europea: una percentuale più consistente di agricoltori rispetto all’insieme degli occupati e una quota più elevata di aziende di dimensioni molto ridotte. Per anni quei dati saranno interpretati come l’esito di una modernizzazione incompiuta e saranno, di conseguenza, prescritte politiche di rafforzamento aziendale indiscriminanate che avranno come modello l’agricoltura del Nord Europa. Quei pochi che hanno visto negli esiti della modernizzazione la riconferma della molteplicità dei sistemi agricoli territoriali come elemento fondante dell’organizzazione socio-economica delle campagne italiane sono stati, invece, bollati come inguaribili ruralisti.
Bisognerà aspettare il presidente della Commissione europea, Jacques Delors, quando a metà degli anni ’80 denuncerà l’insufficienza di una politica settoriale per l’agricoltura priva di una contestuale politica territoriale, per avere una politica di sviluppo rurale.
In Italia, per le sue caratteristiche strutturali, il problema dell’insufficienza della politica dei mercati agricoli si era già ampiamente palesato negli anni ’60. Ma, ad eccezione di Manlio Rossi-Doria, nessuno pose l’obiettivo di governare per tempo i cento sistemi agricoli territoriali con politiche differenziate.
I partiti e le organizzazioni sociali di allora non si sono, inoltre, accorti che le modificazioni principali sul piano del costume e dei valori si registrano proprio nelle aree rurali, dove l’impatto della società dei consumi, della televisione e della motorizzazione di massa è enorme.
E’ proprio in un comune agricolo, ad Alcamo, che Franca Viola rifiuta per la prima volta il matrimonio riparatore. E in occasione del referendum sul divorzio, nel 1974, la Dc vuole ad ogni costo la prova di forza e il Pci tenta fino all’ultimo di trattare per scongiurare la consultazione perché entrambi i partiti, benché fossero così ramificati nel Paese, non avvertivano le profonde trasformazioni ideali e culturali avvenute negli anni ’60 proprio nelle campagne e nel Mezzogiorno.
Va sottolineato, infine, che i ritardi non hanno riguardato solo i partiti e i sindacati ma le stesse organizzazioni di rappresentanza del mondo agricolo.
Paolo Bonomi aveva avuto il grande merito di riconoscere già nel 1944 l’errore di organizzare i coltivatori nel sindacato dei lavoratori dipendenti e, fondando la Coldiretti, aveva conferito alla categoria pari dignità rispetto alle altre. Ed è a seguito di questa felice intuizione che la “bonomiana†si radica nelle campagne.
Ma quando, negli anni ’60, deve guidare la modernizzazione, si trova ad essere braccio operativo della Dc in contrapposizione con la sinistra e incapace di far valere le esigenze reali della categoria, che mal sopporta la struttura gerarchica interna e la mancanza di autonomia nei confronti dei governi.
L’Alleanza dei contadini era, invece, nata in ritardo, solo nel 1955, per impulso di partiti che si erano attardati nella falsa convinzione che la categoria dei coltivatori avrebbe dovuto muoversi obbligatoriamente in un’alleanza con la classe operaia e diretta da quest’ultima.
E quando, dinanzi alle novità della modernizzazione, viene posta l’esigenza di fare un ulteriore salto di qualità , cioè fondare una nuova e autonoma organizzazione, dotata di strumenti per accrescere la professionalità , le conoscenze e il potere economico dei coltivatori, emergono forti resistenze politiche, dovute alle fratture tra i partiti di sinistra, alla rigidità degli schemi ideologici dei comunisti in materia di mezzadria e alle preoccupazioni organizzativistiche della Cgil.
Nonostante vi fossero già nel 1967 le condizioni per unire, in un’unica grande organizzazione, l’Alleanza, la Federmezzadri e l’Uci, si dà vita solo al Cenfac (Centro delle forme associative e cooperative) e ci vorranno altri 10 anni per fondare la Confcoltivatori.
La ribellione delle campagne, al pari di quella delle università e delle fabbriche, esprimeva, dunque, in modo profondo ansia di cambiamento, richiesta di governo, ricerca di nuove forme della politica e dell’organizzazione della società . Ed era alimentata da una forte carica liberatoria: la soggettività , che non metteva in discussione solo il legame tra consumi e bisogni essenziali ma anche il rapporto tra politica e società .
Ma questo elemento individualistico non era affatto nuovo perché non derivava dalla società industriale, bensì da quei valori della coscienza individuale e dell’autonomia della persona che erano insiti nei caratteri del mondo rurale dell’Occidente, come retaggio della fusione di culture rurali antichissime e Cristianesimo. Dinanzi a processi di sviluppo in cui l’innovazione tecnologica aveva assunto un finalismo totalizzante, gli spazi agricoli venivano cementificati senza unire l’urbano e il rurale in un unico disegno di governo del territorio e l’organizzazione sociale assumeva forme dirigistiche e di massificazione indistinta e anonima, i nuovi soggetti sociali che provenivano tutti, compresi gli studenti e gli operai, dalla cultura individualistica del mondo contadino hanno reagito per ottenere che il modello di sviluppo fosse ricondotto al fondamento individuale della democrazia occidentale, riproponendo in sostanza la centralità della persona.
Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che l’apporto delle campagne ai moti sociali degli anni ’60 si esaurisse solo nell’aver posto il tema dell’individualismo,
Le lotte di quel periodo non avrebbero avuto i forti contenuti di egualitarismo e di giustizia sociale che si possono rinvenire facilmente scorrendo le piattaforme rivendicative, se non vi fosse stata anche su questi temi la matrice agricola.
Le forme di solidarietà e i valori di reciprocità , gratuità e mutuo aiuto caratterizzano, infatti, da sempre le aree rurali italiane. E’ sufficiente rammentare lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, le esperienze consortili per la bonifica e la difesa idraulica, gli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva, le origini agricole del movimento cooperativo nostrano – unico in Europa ad averle - per farsi un’idea di quanto profondo ed esteso sia nel nostro paese questo radicamento.
In quel passaggio cruciale della vita nazionale, il protagonismo di un mondo rurale in profonda evoluzione verso nuove soggettività si è caratterizzato nel contribuire a trasfondere nella modernità , vivificandola e arricchendola, quella coscienza individuale, quell’agire responsabile del singolo nel contesto sociale e quelle esperienze derivanti da pratiche secolari di mutuo aiuto e gratuità , che in parte lo avevano da sempre identificato.
In questi quarant’anni, quei valori e principi non si sono mai tradotti in riforme concrete, a partire dalla costruzione di nuovi partiti e nuove organizzazioni sociali.
Anzi, negli anni ’70, alla luce di risultati elettorali lusinghieri, la Dc e il Pci negheranno la propria crisi e non comprenderanno che il successo sarà solo il canto del cigno. E la linea della fermezza, sacrosanta, opposta al terrorismo sarà usata da essi anche come tentativo per rilegittimarsi e accantonare la domanda di cambiamento del sistema politico che il ’68 aveva espresso.
Come ha sostenuto recentemente Biagio De Giovanni, bisogna dire con chiarezza che il ’68 diede inizio alla dissoluzione dei partiti. Quella dissoluzione che sul finire degli anni ’80, con la caduta del Muro di Berlino, risulterà inevitabile.
Oggi quei problemi, ingigantiti dai nuovi che nel frattempo sono intervenuti, a partire dalla globalizzazione, sono in parte ancora sul tappeto e attendono una soluzione.
Il “68 delle campagneâ€, che potrebbe apparire un bizzarro ossimoro, è lì, invece, in attesa di essere letto in tutta la sua complessità . E noi potremmo attingere da questa storia valori, esperienze e significati in cui finalmente identificarci al fine di guardare al futuro con maggiore speranza.