About Me
Trovate un mio racconto in questa antologia.
Qui invece trovate il primo capitolo del mio romanzo d'esordio.
Infine, questo è il gruppo in cui suono, mentre questo è il mio progetto musicale solista.
Numero uno: "Smettere Di Scrivere".
"A che ti servirà mai: una matita è perfettamente inutile."
"Ora, che tu dica la tua mi sta bene. C'è il perbenismo ed il rispetto delle opinioni altrui e tutto quanto. Ma sostenere che una matita è inutile mi pare francamente troppo."
E sinceramente mi pareva troppo. E' palese: una matita è un bastoncino di legno con grafite come midollo. Quando appoggi la grafite su una superficie, solitamente un foglio di carta, lasci un segno. Non su ogni superficie, ne convengo, ma avete capito il punto: una matita funziona.
La mia matita era una H3: molto dura, lasciava profondi solchi nella carta, e spesso la sfibrava. Scarabocchiavo qualche linea a casaccio tutte le volte che ero nervoso, e dio (o chi ne facesse le veci) sa se non succedeva spesso, negli ultimi tempi. Succedeva sempre, quando ero in compagnia di lei.
Come poteva sostenere che quel bastoncino che scriveva col proprio midollo fosse inutile. Che stesse a sottintendere il suo nuovo odio verso la scrittura? La sua volontà di abbandonare velleità artistiche di prosa e poesia? Lo temevo. Da tempo le risme di A4 che regolarmente comprava rimanevano intonse in un angolo della scrivania. O, perlomeno, non venivano divorate dalla macchina da scrivere come un tempo. Un tempo in cui ancora esistevano cose come le macchine da scrivere.
"Il blocco dello scrittore" mi era sempre sembrato un concetto così stupido. Come dire "il gomito del tennista". Nessuna similitudine, per carità , non cercatene, ma per semplice assonanza accomunavo le due cose. Dal gomito del tennista si guariva in modo certo, però.
Comunque, forse si trattava proprio di quello: del blocco.
Giusto ieri l'avevo fatta sdraiare, supina e nuda, sul pavimento, intingendo il pennino in un pregiato inchiostro. Le avevo scritto sul corpo qualche stupida poesia, in un impeto di melodrammaticità fuori luogo.
Lo facevamo spesso: a volte scrivevo haiku intorno ai capezzoli, altre volte rime sui fianchi, altre volte ancora liste della spesa sulle cosce.
Le piaceva che le si scrivesse addosso usando del sangue e così, quando mi andava, aprivo uno dei conigli che tenevo in giardino e lo usavo come calamaio. Ma dovevo scrivere in fretta, perchè il sangue si seccava alla svelta una volta che gli organi interni della bestiolina venivano alla luce.
Sì, forse quel negare l'utilità di una matita significava che presto avrebbe smesso di scrivere.
Numero due: "Tutto Ciò Che Vedo".
Quando sono al volante adoro viaggiare col finestrino abbassato. Mi sembra così di lambire i luoghi che attraverso e di avere con loro qualcosa da spartire. A volte mi assale, netta ed evidente come un impact carattere 20, la sensazione che tutto sia fatto della stessa materia: la mia auto, l'asfalto che sotto di lei via se ne corre, l'aria che sa di terra (sì, è quasi estate, e spiove), i monti che in lontananza chiudono la linea del visibile, la terra che sa di terra. Tutto della stessa materia, se non fosse che "materia" non è parola che mi soddisfi a sufficienza. Succede così che carezzare un tulipano sia uguale a carezzare la plastica smerigliata del mio cruscotto. La stessa mia pelle si confonde con quella plastica, con la pelle accogliente dei sedili e con tutto ciò che vedo.
Respiro l'aria veloce che entra nell'abitacolo, vedo i campi e le case, le cascine ed i rivoli. Guardo dei passanti ed una coppia alla finestra: ovviamente non so niente di loro ed eppure me ne dolgo. Vorrei conoscerli e vorrei con loro, con chiunque, fare l'amore. Sapere come passano i pomeriggi.
La campagna della bassa bresciana ha spesso questo effetto su di me, come qualsiasi altro luogo del resto. Ma ora, come sempre, questo è ciò che ho davanti agli occhi.
(Vi narro questo perchè fu allora, quel pomeriggio, che incontrai l'amore della mia vita. Non una giornata quasiasi, sappiatelo: non scoraggiatevi.)
I luoghi che preferisco, i soli luoghi che davvero amo sono i luoghi che non ho mai visto. Sono sicuro che in psicologia questa patologia abbia un nome ben preciso. Se non ce l'ha, sarei ben fiero di chiamarla col mio nome: "Complesso di Nicola". Potrei usare il cognome, ma sapreste troppo di me. E poi, Edipo non ce l'aveva un cognome. Dicevo, i luoghi non visti: nulla di reale può avvicinarsi ai posti che sei libero di inventare. Che ovvietà .
Io non li ho mai visti, tutti questi luoghi che mancano all'appello, ma forse loro hanno visto me. Non si può mai dire. Forse, nottetempo, mentre dormo, escono dagli angoli e si avvicinano al mio letto. Forse si danno di gomito e mi indicano, curiosi.
Buffa idea, i luoghi ce ci scrutano, ma preciasmente a questo stavo pensando appena prima di vederla. Poi, ogni fantasticheria fu spazzata via come un bagnante dallo tsunami. Ciascuno di voi avrà le proprie idee sul'amore. Chi crede nel colpo di fulmine, chi no, eccetera. Pensatela come volete: gli unici che non sopporto sono i cinici. Ebbene, se volete fidarvi di me, e del resto non vedo il perchè io debba inbrogliarvi, vi dico che dal primo momento in cui la vidi capii di aver trovato la donna con cui sarei invecchiato felice. Capii di aver trovato l'amore, incarnatosi in quella creatura che altri non poteva essere se non la mia futura moglie.
Dopo circa mezzo minuto, il suo respiro si arrestò e lei morì, supina sulla linea di mezzeria. L'impatto era stato fatale, e a nulla era servito il mio pigiare a fondo il pedale dei freni. Anzi, pensandoci col risaputo senno di poi, forse questo peggiorò le cose. Il sangue della mia amata ricopriva il cofano dell'auto e pareva friggere sull'asfalto bollente.
Mi disperai per lei come se le fossi stato accanto da una vita, perchè le ero stato accanto da una vita. E quando, rovistando nella sua borsetta inzaccherata, lessi i suoi dati sulla patente, non mi stupii di conoscere già il suo nome. Eppure, l'avevo vista per la prima volta un minuto prima, quando fantasticavo di luoghi mai visti.
Quelli che forse, mentre dormite, escono dagli angoli, si danno di gomito e vi guardano.
Numero tre: "Yuko Ed Il Mistero Della Pioggia".
Anni fa, da bambino, guardai fuori dalla finestra aperta e vidi piovere. Il cielo tuonava, ed un odore di carta bruciata entrava in casa. Appena oltre il cortile di ghiaia, sulla strada, un nano ed un altro tizio spingevano un cavallo che puntava gli zoccoli. Risultava evidente come la pioggia battente e, soprattutto, i numerosi tuoni, lo imbizzarrissero. Ogni tanto, dimenando il muso con vigore, nitriva e sbuffava.
Una domenica mattina come tante: presto l'odore di carta bruciata sarebbe stato sostituito da quello delle patate al forno della nonna, ed altrettanto presto sarebbero arrivati i parenti per il consueto pranzo domenicale.
Mia sorella Miyako, dalla camera da letto, chiamò il mio nome ad alta voce: voleva uscire a giocare. Attraversai il lungo corridoio e giunsi da lei, trovandola ancora abbandonata e sognante sul futon. La coperta, stropicciata, le aderiva al corpo ed alle gambe come una seconda pelle, abbondante e flaccida. Strabuzzando gli occhi non ancora abituati alla luce, indicò un punto esterno alla nostra casa, oltre la finestra.
"Andiamo".
Guardai fuori e non pioveva. Anzi, qualche raggio di sole arrivava fino a noi, illuminando il pulviscolo atmosferico, rendendosi visibile.
Per me fu una magia: dietro casa, pur udendo i tuoni, s'intravedeva un timido sole, mentre davanti pioveva intensamente. Corsi avanti ed indietro, eccitato ed incredulo, dalla cucina alla camera da letto e vicersa: e sempre trovavo, alternativamente, pioggia e non pioggia, pioggia e non pioggia. E ad ogni conferma la mia gioia di bambino aumentava. Durò un minuto, forse meno, poi il maltempo ebbe la meglio su tutta la nostra casa, ed io e Miyako non trovammo nulla di meglio da fare che leggerci vicendevolmente delle antiche favole tradizionali, stesi sul futon.
Non sapevo che, di lì a poco, non avrei più rivisto la mia amata sorella.
La casa venne demolita 5 anni dopo, rimipiazzata da un condominio a tre piani.
Sono passati sessant'anni da quell'episodio, che rimane l'unico vivido ricordo di quella vecchia abitazione dove trascorsi buona parte dell'infanzia. Ed in sessant'anni non ho più rivisto quello che allora chiamai "il miracolo della pioggia".
Fuori dalla finestra, il nano ed il suo amico seguitavano a spingere, contrariati, il cavallo.