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Beltane 2009
Non sono così vecchio come mi sento, a volte. Vuoi perché dicono che ho acquisito una certa saggezza, ma... accidenti... spero di avere tempo per pensare e depredare il mondo delle sue cose e poterle lasciare a qualcuno. Però mi ricordo di una particolare giornata di settembre del 1986; avevo otto anni all'epoca e insieme alla mia famiglia (mamma e papà - mio fratello aveva già un'età adatta a glissare su certe cose) eravamo andati in un paese valtellinese di cui ignoro il nome. Là, in un bellissimo ristorante con finestre affacciate sulla valle, ordinammo un piatto di pizzoccheri, che io prontamente rifiutai appena vidi che nel mezzo della pasta che tanto amavo si annidavano quelle cose verdi e mollicce che mia mamma si premurava sempre di non mettere quando li cucinava perché sapeva che altrimenti sarebbe stato impossibile farmeli mangiare (ossia le stesse cose verdi e mollicce che io non mangio tuttora ma di cui mio figlio va matto - una situazione oltremodo scomoda perché dovrei essere io ad invitare lui a mangiarle e non il contrario, e si sa, quando i ruoli tra genitori e figli vacillano nelle piccole cose... è un disastro anche su quelle grosse).
Quando finimmo di mangiare, io rimasi estasiato a guardare la valle. Il paese si affacciava su un Adda sorridente e la vista era meravigliosa. In quel tempo che ora mi appare così lontano, quando nel discorso di fine anno l'allora presidente Cossiga recitava questa pseudo Kennediana frase: "Nessuno può essere responsabile solo per se stesso; ciascuno deve sentirsi, come è, responsabile dei problemi e delle difficoltà degli altri. Di tutti gli altri", io vivevo a casa mia con i miei genitori. Giocavo con Skeletor, He-Man e gli altri Masters, non avevo la minima idea di che cosa diavolo fosse la wicca, non conoscevo nessuno che avesse un computer (tranne forse il mio compagno di classe Luca Sioli, dato che suo papà faceva il prestidigitatore - un tal Soliman - e aveva una casa tanto grande che sul balcone ci andava in bici), mi piacevano i dischi degli Iron Maiden per via delle copertine truculente, guardavo Uan, Paolo Bonolis e Licia Colò alle quattro su Italia 1 in quel capolavoro per ragazzi che era Bim Bum Bam, senza curarmi in realtà che il resto del mondo aveva una vita. Io avevo la mia... tu avevi la tua. E' così quando si è bambini. Si vive nella bellezza dell'ignoranza. Si chiama innocenza. Ma all'epoca... beh... per me era la vita e basta; basata sui bisogni di un individuo della mia età. La distanza geografica diventa incolmabile anche con il pensiero quando lo è con i mezzi a tua disposizione, quindi dal mio punto di vista i tedeschi vivevano in Tedeschia e indossavano sempre elmetti e divise (se i miei soldatini erano così un motivo c'era).
Beh, dieci mesi dopo, quando ormai avevo compiuto nove anni e andavo in terza elementare, quando avevo già letto "Le Notti di Salem" di Stephen King e trovato lo pseudonimo che mi accompagna ancora ora, proprio mentre ero in vacanza cominciò a piovere. Era un venerdì. Venerdì 17. Vedi tu le coincidenze, talvolta. Fu una bella pioggia intensa, di quelle che durano tanto; di quelle che lasciano quell'odore di umido nell'aria, che ti fanno venire i brividini quando guardi fuori dalla finestra e vedi le pozzanghere che si muovono di cerchi concentrici. Col caldo che faceva poteva anche starci. Non che mi ricordi esattamente se fosse quello il periodo, ma si allagò la nostra cantina (che essendo una casa vecchia negli anni quaranta fungeva da rifugio anti-bombardamenti, quindi aveva accesso dal cortile). Le bottiglie di vino vuote erano tutte fuori posto. L'acqua le aveva sollevate dai suoi ripiani e le aveva depositate gentilmente a terra, con delicatezza, come fossero barche all'asciutto.
Ero rimasto colpito quando avevo visto quel fenomeno. "Sono entrati i ladri?", ho chiesto a mio papà (i ladri avevano sempre l'aspetto di persone vestite di nero nella mia mente). "No... è stata l'acqua". Avevo annuito. Mica avevo capito esattamente cosa fosse successo: la fisica non era ancora il mio forte. Ma mio papà era scocciato di dover rimettere a posto tutto e così lasciai correre.
Beh, per me... quella pioggia fu solo una cosa passeggera, un evento come tanti altri. Per altri non fu così. Proprio in quel posto che tanto mi aveva colpito, undici giorni dopo quella grossa piovuta accadde un disastro, e il paese dove avevo mangiato quel piatto di pizzoccheri semplicemente fu spazzato via. Non esisteva più. Né il ristorante né le case e né ovviamente, il mio piatto di pizzoccheri. In quei giorni me lo immaginavo a galleggiare fino al mare e mi chiedevo se le cose mollicce e verdi che non avevo voluto mangiare fossero finite in bocca a qualche pesce che magari le avrebbe apprezzate di più.
A me cosa rimane ora? La mia pratica di visualizzazione mi permette di ricordare e ripercepire il sapore di quei pizzoccheri come se li stessi mangiando ora, e rivedere la vetrata con il sole che entrava ad illuminare la tavola con la tovaglia a scacchi rossi e bianchi; rievoco il colore sanguigno del vino nella brocca di terracotta, l'odore intenso del bitto fuso e quello più dolciastro delle coste di bietola che saliva dal piatto; il fresco della giornata di fine estate e l'odore dell'erba al di fuori, la cameriera vestita di bianco e nero, il suo odore quando mi serviva... ci sono cose che mi rimarrano dentro per sempre; immagini che l'alluvione non mi potrà strappare più. Un po' per la mia fortuna di avere una buona memoria per certi eventi, un po' perché il sapere che qualche mese dopo quelle stesse cose sono state letteralmente spazzate via mi ha aiutato a imprimerle meglio nella memoria.
Io credo che a nove anni si faccia fatica a rendersi conto o immaginarsi cosa significhi perdere tutto. E' difficile farlo da adulti, figuratevi da bambini. Forse possiamo immaginarci cosa significhi perdere le persone care, o anche rischiare di morire. Se siamo stati sfortunati a nove anni abbiamo già incontrato la morte sulla nostra strada. Magari, come diceva King in "Pet Sematary": ha bussato alla nostra porta, o è entrata in casa e ci ha detto "Salve!", magari ha cenato con noi... e magari a volte abbiamo sentito che ci mordeva il culo. Ma se abbiamo avuto la fortuna di rientrare nella fetta di persone che hanno vissuto un'infanzia normale, beh, è rara l'eventualità di seppellire qualcuno prima dell'età media della ragione, prima di renderci conto che significa "mai più" o "per sempre".
Vedete... il nostro bisogno di stabilità ci rende schiavi. E' un bisogno che non ha niente di naturale, perché l'uomo può anche vivere come nomade e non avere niente, ma essere padrone di tutto perché ha la vita ed è capace di viversela. Le tribù di nativi americani avevano un concetto di possesso molto diverso dal nostro, ad esempio. E' il bisogno sociale che ci rende così dipendenti dalla stabilità. Quando te ne accorgi è perché sei stato messo di fronte alla verità dello scisma tra ciò che sei e ciò di cui credi di aver bisogno. E allora trovi del bello anche nelle disgrazie. E la cosa bella delle disgrazie e nei disastri è sapere che se la vita c'è, puoi ricominciare. E' la forza che ti viene da dentro e che ti fa capire che non solo devi farcela... ma soprattutto che lo puoi fare. Il bello dei disastri, in un certo senso, è che ti fanno capire che sei vivo, mentre altri sono morti. E certo... puoi piangere i morti, ma... quando hai finito di piangerli ti rendi conto che sei stato fortunato, e per certi aspetti sei stato scelto per ricostruire, per riprovarci, per rimettere a posto le cose. E quando capisci che è così, allora è inevitabile sentirsi felici. E' giusto anche. I morti sono morti e la gente soffre. Ci sono sempre morti e c'è sempre gente che soffre. Ma ci sono anche i vivi e la gente che soffre fa parte dei vivi. E chi sta bene deve rallegrarsi di stare bene e non pensare a chi non è più vivo; quanto meno non oltre il tempo necessario a non dimenticarne il sacrificio o la disgrazia o comunque lo splendido ricordo che porteremo con noi, sempre. Esattamente come il ricordo del mio piatto di pizzoccheri e della vallata inondata di sole. Nessuna alluvione potrà portarmelo più via. E anche se quel ristorante non c'è più e non è stato ricostruito, anche se la Valtellina è totalmente diversa ora da prima, io, che l'ho visitata una volta soltanto, ho dentro me la grandezza di quell'unico ricordo che la fa rivivere sempre com'era.
E' questa la forza e la grandezza dell'essere umano. Supera il dolore della morte per amore della vita. E la vita è tutto ciò che abbiamo; non dobbiamo dimenticarcelo. Anche se a volte è inevitabile dare per scontato questa cosa, sarebbe fantastico poter riuscire a non farlo. Io ho visto e sentito cose diverse appena dopo e anche durante il disastro recente in Abruzzo. Alcune mi hanno fatto sentire fiero, altre mi hanno irretito. Ma è così che funziona con l'opinione pubblica, e io... nel mio piccolo, faccio parte dell'opinione pubblica, come tutti voi. E io ho amato il popolo italiano quando ho visto la rapidità con cui sono state buttate all'aria le diversità e la solidarietà ha preso possesso delle persone, come fronte unico innanzi ad un nemico comune: il tempo. Ho amato il popolo italiano quando ho visto la protezione civile chiedere gentilmente "basta volontari!", perché troppa gente accorreva ad aiutare. L'ho amato quando ho visto la velocità con cui sono partite, nel mondo pagano di internet, meditazioni guidate per portare aiuto spirituale ai bisognosi, viaggi sciamanici combinati per contattare lo spirito protettore del luogo e sapere come era possibile aiutarlo e calmarlo; migliaia di candele accese, tamburi che suonavano, incensi e preghiere. Se chiudevo gli occhi mi pareva di sentirli tutti recitare e intonare e rimbombare e splendere. Ho amato il popolo italiano perché per una volta ci sono state ben poche polemiche, ma fatti. Maniche rimboccate e bocche cucite. E il tutto l'abbiamo fatto ignorando culture e religioni. Per alcuni giorni siamo stati un fronte comune. E' stata una sensazione di curiosa fratellanza nella solidarietà ai bisognosi che tutti hanno avvertito e di cui si sono rallegrati. Anche solo con il cuore, anche solo con il pensiero. E ogni gesto di cui sentivi parlare (case offerte gratis, pane regalato, offerte inviate) mi hanno fatto capire che il bisogno unisce gli uomini nelle disgrazie. E mi hanno fatto amare il popolo italiano.
Io ho preso Morgan e gli ho spiegato per filo e per segno quello che era successo poco prima del suo quarto compleanno. Ho tentato di fargli capire che cosa poteva significare per i bambini della sua età che abitavano da quelle parti il non avere più una casa, magari una mamma e un papà, e non avere più dei giocattoli con cui giocare. Queste parole lo hanno fatto pensare. Ho visto i suoi occhi alzarsi al soffitto, in un angolo della stanza. Mentre mi rispondeva assente: "Sì...?". Stava immaginando cosa potesse significare; vedeva ma non guardava. Così ha selezionato alcuni dei suoi giochi, di quelli che non usava più, e li ha messi da parte. Un bel sacchetto della spesa piena di giocattoli di cui sentiva di potersi separare. "Per i bambini del terremoto", mi ha annunciato porgendomelo. Io l'ho abbracciato stretto e lui mi ha baciato la guancia, poggiandomela poi sull'orecchio. Mi veniva da piangere da quanto lo amo. Chiedere anche a lui un sacrificio per gli altri gli permetterà di ricordarsi, un giorno, di aver fatto qualcosa di altruistico per degli sconosciuti con il solo intento di aiutarli. Io avevo il magone proprio qui, alla bocca dello stomaco e il dolore al palato molle, quello che preannuncia i singhiozzi. Soprattutto nel pensiero di perderlo, di passare un giorno la stessa cosa che devono aver passato alcuni genitori lì in Abruzzo. Uno di quei pensieri che ti assale sempre quando ti rendi conto che poteva capitare anche a te.
Purtroppo, nella forza del dramma e della tragedia... c'è stata anche una reazione negativa. E non parlo delle questioni attive e sociali tipiche delle persone prive di scrupoli, come lo sciacallaggio o la denuncia fatta alla Caritas perché molti suoi appartenenti rivendevano i vestiti nuovi che erano stati portati all'associazione per destinarli ai terremotati (la colpa di pochi, ovviamente, non può essere appannaggio per l'intera associazione benefica). La cosa che mi ha reso triste sono stati gli attacchi atei alle religioni, soprattutto quella cristiana. E mi dico... ma se una persona non ha bisogno di credere, perché incolpa un dio? Se una persona si definisce atea, dovrebbe ben sapere che cosa sono i terremoti, i fulmini e trovare in questi una spiegazione scientifica, senza attaccarsi a chiedere a chi invece ha bisogno di avere fede dove fosse il suo dio in quel momento e incolpandolo di non aver agito per il bene dell'umanità, o sfruttando questo momento per ribadire e ricalcare il proprio scetticismo rigettandolo addosso agli altri. Se una persona si definisce atea, dovrebbe sapere che il compito della scienza non è spiegare il perché avvengono dei fenomeni, ma limitarsi alla descrizione degli stessi. Il perché è campo dei filosofi. E questo proprio perché ipotesi diverse possono portare a spiegazioni diverse. Non viviamo sull'illusione che tutto si possa spiegare con la religione o con la scienza. Sarebbe limitante, non credete? Ma soprattutto facile. E poi non era il momento per le discussioni di sempre.
Io non sono ateo. Per un periodo della mia vita lo sono stato, quanto meno a parole, ma i bambini nascono animisti e il mio essere ateo era solo una risposta ad il fatto che non accettavo già dall'infanzia i dogmi assurdi della religione cattolica, e in più il mio spirito rivoluzionario mi portava a scontrarmi con le sue regole prive una retorica storico-scientifica e mai supportata da una valida bibliografia ma accettate per "atto di fede". Però non ho mai incolpato Dio delle cose brutte che mi capitavano. Lo trovavo assurdo già allora; lo trovavo privo di fondamento. Che senso poteva avere? Eppure il terremoto in Abruzzo ha scatenato molti feroci anti-cristiani su internet, come se l'odore del sangue versato li avesse fatti impazzire. E' stato un comportamento che mi ha stupito e raggelato insieme, e che ho ricondotto all'animale cultore del sangue per eccellenza: lo squalo. Esattamente come gli squali annusano l'odore del sangue da chilometri di distanza e si precipitano per banchettare, sembra che tutto ciò che è successo, nella tragedia dei morti, delle persone che all'epoca erano ancora intrappolate sotto le macerie, di chi aveva perso tutto, fosse passato inosservato perché l'occasione per attaccare una religione con tutta la furia e la rabbia che è stata accumulata era così ghiotta da non riuscire a frenarsi. Soprattutto perché questi eventi minano la credibilità di un dio infallibile, di un dio buono e misericordioso.
O forse, mi chiedo... alcune persone credono davvero che vivere sulla crosta di un pianeta ci renda immuni dai mutamenti e i cambiamenti che questo subisce e ha, a volte indipendentemente dal nostro intervento? Se uno crede nella scienza e si basa sulle sue osservazioni per ottenere le sue risposte, dovrebbe sapere che la terra ignora l'esistenza di noi esseri umani e si comporta in maniera indipendente dalle nostre civiltà, dai luoghi dove le abbiamo cullate e dove si sono diffuse. Se non fosse così dovrebbe riconoscerla come entità e non come corpo celeste, attribuendogli quindi una sorta di "spirito" e dando sì ragione a sciamanisti e animisti che la ritengono viva, pertanto soggetta ad uno pseudo ciclo vitale compreso di decadimento e (per fortuna) guarigione.
Insomma, la guerra delle religioni c'è da sempre e quando si fa più feroce in ultimo si dimentica la realtà che ha portato allo scontro e soprattutto chi ha attaccato per primo; ma la gente che soffre per gli eventi naturali sono sia dell'una che dell'altra fazione. E se loro per primi hanno buttato le armi e si sono abbracciati per farsi caldo nelle notti buie e gelide che seguono sempre le catastrofi, dimenticando lo status sociale, l'etnia, la razza, la fede politica e la confessione... perché l'attacco deve giungere dall'esterno? Il bisogno, la disperazione, il dolore sono cose che uniscono le persone sotto un fronte comune, distruggendo le barriere, abbattendo i muri mentali e sociali che ci siamo creati e dentro i quali viviamo. Innanzi alla morte e agli dei, siamo sempre tutti uguali. E i momenti di forte impatto permettono alle persone di riscoprire ciò che sono: persone; lo fanno annullando i termini delle differenze ed esaltando invece le uguaglianze. Perché la verità dell'umanità è che si dimentica di che razza è composta: esseri umani. E il pensiero diverso, l'etnia, la razza, non sono più motivi di distinzione distruttiva, bensì costruttiva. E in fin dei conti il cambiamento, la distruzione... certo... distruggono, cambiano... ma permettono il movimento, il naturale riscoprire delle cose nascoste. Come la cenere degli incendi fertilizza la terra, o la tempesta porta con sé i semi con il vento, la natura non distrugge mai con il solo scopo, assoluto, di distruggere. La natura distrugge tenendo per mano, dietro di sé, le semenze del cambiamento, che metteranno radici e cresceranno. E tra le macerie sbocceranno fiori, piante, frutti... e la vita ricomincerà.
Per noi esseri umani, così legati alla stabilità, è difficile accettare il cambiamento, soprattutto quando sconvolge così tanto i nostri ritmi, i nostri presunti bisogni, ma siamo in grado di superare il cambiamento. Ne siamo in grado perché la forza della vita vince sempre, e anche se ci vorranno anni per ricostruire ciò che la natura ha distrutto in termini fisici, la ricostruzione spirituale e sociale delle persone colpite è già cominciata, e il fenomeno di cambiamento si è già messo in moto, permettendo alle persone di rendersi conto che, salva la vita, avranno l'opportunità di rimettersi in moto in maniera diversa, di avere una possibilità, nella disgrazia, che altri non si sono accorti di avere.
Non dimentichiamolo.

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