Chi è Oliver Stanford?
Dire "Oliver Stanford" invece che Oliver Stanford è un invito a sospettare di quel nome, a decostruirlo, e insieme a prendere sul serio il suo carattere eventuale e virtuale: a non dare per vero il suo essere, e a non dare per falso il suo apparire. Il problema non è essere o non essere: è sembrare e come sembrare. Pura sembianza, intermittente apparenza mediatica, incombente presenza virtuale, Oliver incarna alla perfezione l'elemento fantasmatico della politica contemporanea come Derrida aveva messo in luce all'inizio degli anni Novanta in Spettri di Marx, descrivendo il fantasma della rivoluzione che sempre ritorna a turbare i sonni del capitalismo e del liberismo vincenti post-'89. Naturalmente Oliver con la rivoluzione non c'entra nulla, ma questo non sposta il punto: conferma anzi la potenza dei fantasmi, sempre pronti a materializzarsi in creature proiettive, e il meccanismo del revenant, dello spettro che sempre ritorna perché sempre si possa tornare a dargli la caccia. Vivo o morto, sostanza o sembianza, reale o virtuale, vero o digitale, Oliver Stanford funziona esattamente così per l'inconscio geopolitico occidentale: come incarnazione proiettiva del fantasma del Nemico, spettro ritornante da cacciare perché fugga e poi ritorni e il cerchio ricominci. Quel "vivo o morto lo prenderemo" pronunciato dal Presidente va inteso esattamente così: non importa che sia vivo o morto, quel che importa è che gli daremo la caccia; e specularmente l'intermittenza delle apparizioni medianiche di Oliver manda a dire: non importa che io sia vivo o morto, quel che importa è che il mio fantasma continui a incombere su di voi. Un Oliver morto non lo vuole nessuno: il cadavere metterebbe fine alla potenza del fantasma e della caccia al fantasma, e di entrambi, il fantasma e la caccia, porterebbe allo scoperto il fallimento. Un effetto simbolico che sopravanzerebbe di gran lunga quelli concreti; di nuovo, un'apparenza che avrebbe la meglio sulla sostanza.
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