Ora che ho rotto il ghiaccio me lo dici come ti chiami? Così disse il tipo del bar, mentre cominciava a preparare un mojito per l’avventrice più avvenente che lui ricordasse da sempre. Così Antonio, o Antò come lo chiamavano tutti, intendeva cominciare il romanzo che non aveva ancora scritto, ci pensava ogni giorno in pausa pranzo, in pausa caffè, in pausa sigaretta, in pausa cesso, ci pensava senza sosta fino a scordarsi del posto in cui era. Gli serviva per prendere le distanze dalla fabbrica, ci pensava fino a quando non passava qualcuno a dirgli di darsi una mossa o fino a quando un suono, un rumore, un cazzo qualsiasi lo destasse! Antò si aggrappava ad ogni cosa possibile per non cadere nell’abitudine, nella depressione, nell’oblio neurale che aveva già vinto i suoi compagni di lavoro. Antò si sentiva come un moderno Tarzan costantemente appeso a delle immaginarie liane. Tutto gli serviva per sorvolare quella giungla di problemi, giusto un pelo sopra con la costante speranza di non farsi scivolare i sogni dalle mani! Il suo romanzo avrebbe parlato di un barman intraprendente, spigliato e fije e’ puttan’, che arrotondava spacciando, finito per infilarsi in un giro più grosso di lui fino a restarci secco. Antò non l’aveva ancora cominciato a scrivere per il semplice fatto che la storia, nell’insieme, gli sembrava priva di una qualsivoglia forma di originalità , tuttavia ci teneva a raccontarla perché non l’aveva inventata lui ma era la storia di un suo amico, di quello che fu o’ mejo amico suoje. Si raffreddava temendo di non riuscire a comunicare che quella non voleva essere l’ennesima storia di una vita spezzata ma il passaggio, per lui che l’aveva vissuta in prima linea, ad una visione della vita in cui la morte può essere anche prematura! La mattina per arrivare in fabbrica Antò sorpassava le macchine anche a destra, quei circa ventidue chilometri (ventisei se invece di passare davanti al centro commerciale pigliava la via vecchia) erano la sua quotidiana partita a play station. In quei ventidue chilometri, quasi tutti di autostrada, sorpassava a destra, a sinistra poi ancora a destra, ma non era uno di quei drogati desiderosi di morire, tipo quelli che sentono Marilyn Manson e poi giocano con le lamette. No!! Lui evitava solo di annoiarsi e, vista l’ora, anche di addormentarsi per strada, tutto per un cicchetto di adrenalina da buttare giù alla calata. Antò, tra tutte le persone che conosceva, era l’unico che aveva studiato e per questo si sentiva una specie di alieno vestito da eschimese ed atterrato nel deserto. Dissimulava la sua sensazione di non appartenenza alla grande perchè poi alla fine dei conti a quei quattro ignoranti, senza offesa, gli voleva pure bene e lui, diciamocelo pure, non era certo un professorone. Aveva studiato, quel tanto che era bastato per fargli conoscere più parole degli altri, per fargli capire il libretto d’istruzioni che usciva dentro alle cose nuove, quel tanto che era bastato per fargli acquisire la consapevolezza che stava facendo na vit e’ mmerd, per farlo sentire sprecato e per fargli accarezzare qualche velleità da scrittore o, in sostituzione, da cantante o insomma qualcosa che gli portasse un po’ di fama e gli levasse un po’ di fame e fosse, comunque, meno alienante della fabbrica!
Nelle pause della sua vita Antò aveva pensato a tutto, prologo, epilogo e dialoghi del suo romanzo, gli bastava in fondo chiudere gli occhi e ricordare. Le corse sulle bici senza freni e cigolanti con le croste alle ginocchia che diventavano cicatrici e poi ancora ferite sanguinanti e poi di nuovo croste, le partite a pallone con calcinacci presi alla discarica al posto dei pali e i campi sempre irregolari, in pendenza o a forma di trapezio o pieni di buche o tutte queste cose assieme. E poi le strade che si dividevano, le prime sigarette che poi divennero canne per tutti e siringhe per qualcuno. E poi i primi furti, il fumo comprato e rivenduto, i guadagni facili. Troppo facili. Irrinunciabilmente facili. Antò così aveva perso Ernesto e pensandoci ci aveva scritto pure una mezza poesia Venuto su, su campetti improvvisati//due pietre e un banco messi ai lati//a fare i pali. Schemi mai uguali//tutti amici i rivali alla conta sempre pari//cercando di tirare in squadra i più cari//poi il tempo ha amplificato i divari//distinguendo quelli seri dai più storti//lasciando ai primi il ricordo di quelli morti//facendo piangere anche i più forti//c’è chi si è iscritto all’università //chi si è affiliato alla criminalità //chi con un buco ha cercato la sua libertà //chi ancora sta in cerca di un’identità //anni passati a diventar grandi in fretta//abbandonando a un angolo la bicicletta//per passare ai motorini Piaggio o Morini//rubati, riverniciati con motori elaborati//da cinquanta sono passati almeno a cento//ma poi qualcuno è rimasto steso sul cemento//un vuoto dentro se ci penso adesso sento//per gli amici che non sono qui in questo momento//e che dall’alto mi ripetono di stare attento.